Sostenibilità

Come far saltare un oleodotto

E’ stato da poco pubblicato in italiano il saggio dell’ecologista Andreas Malm che fa discutere gli ambientalisti

Secondo lo svedese Andreas Malm (classe 1977, attivista climatico, professore di Ecologia umana all’Università di Lund, in Svezia) fra i più importanti libri sulle politiche climatiche di ogni tempo vi è “The Ministry for the Future”, romanzo di fantascienza del 2020 dello scrittore americano Kim Stanley Robinson. Partiamo da questo dettaglio che ci viene rivelato nell’appendice del libro per darvi un’idea del suo saggio, da poco tradotto in lingua italiana, intitolato “Come far saltare un oleodotto”.

Il romanzo di Robinson, ambientato in un futuro prossimo (2025) immagina una terribile ondata di calore nel nord dell’India che uccide venti milioni di persone a causa di una miscela mortale di alte temperature ed elevata umidità dell’aria. Come sappiamo le ondate di calore  nell’immediato rappresentano forse la minaccia più reale e più grave portata dai cambiamenti climatici e proprio in questa primavera le cronache ci hanno mostrato l’India alle prese con un interminabile periodo di temperature estreme.

L’entusiasmo di Malm per questo racconto è dato però dal seguito del romanzo: dopo l’evento catastrofico, infatti, nasce un movimento popolare (chiamato Figli di Kali) che parte al contrattacco dell’industria fossile mondiale tramite sabotaggi e distruzione delle sue infrastrutture, allo scopo di arrestare le emissioni di gas ad effetto serra. E qui arriviamo alle tesi di Malm: “Come far saltare un oleodotto” non è un pamphlet che inneggia al sabotaggio e alla distruzione come “la migliore soluzione” per uscire dalla crisi climatica (il lettore resterà deluso se davvero volesse imparare a fare esplodere un oleodotto!), bensì un’analisi lucida, seria e documentata della situazione del movimento ambientalista in questo momento cruciale della storia.

La profonda e sincera preoccupazione dell’autore per l’aggravamento della crisi climatica, che tuttavia non sconfina mai nella disperazione – al tema della disperazione è dedicato uno dei tre capitoli del libro – pervade ogni pagina di questo lavoro, corroborata dai dati (soprattutto con riferimento all’intenzione dichiarata dell’industria fossile di continuare ad espandere i suoi affari) e da una corposa bibliografia.

La copertina di “Come far saltare un oleodotto” edito da Ponte alle Grazie

Quando parte il contrattacco? La domanda, anche se resa esplicita solo nell’appendice del libro, risuona fin dalle prime pagine quando l’autore ripercorre sinteticamente le vicende di alcuni movimenti di successo nella storia recente delle proteste per il clima, quali Extinction Rebellion (XR) o Friday For Future (il movimento ispirato da Greta Thunberg), caratterizzati da un’adesione incondizionata ai principi della non-violenza.

Ma dove comincia la violenza, ci chiediamo e si chiede Malm? “Gli argomenti per categorizzare come violenza l’industria del fossile – una violenza strutturale, costante sempre in crescita – sono ovvi” scrive l’autore. Sabotare un oleodotto o sgonfiare le gomme a un SUV appartengono alla categoria dei comportamenti violenti? E se sì, possiamo giustificarli come reazione inevitabile, (stranamente il principio della legittima difesa non viene mai invocato) alla violenza su scala immensamente più grande che minaccia da vicino la vita ed il benessere di miliardi di esseri umani?

Messa in questo modo la risposta sembra abbastanza scontata e potremmo trovarci facilmente a pensarla come Malm. Per suffragare la sua tesi egli prova a smontare una diffusa mitizzazione del pacifismo e della rivolta non violenta e rilegge la storia delle suffragette (ruppero molte vetrine), ci ricorda le incongruenze della vita e del pensiero di Gandhi (verso questo personaggio l’antipatia dell’autore è più che esplicita), ricorda vicende del movimento antischiavista, della lotta all’apartheid, fino ai fatti recenti di Black Lives Matter.

La lista degli esempi sul ricorso alle maniere forti si allunga fino a comprendere perfino il Gesù del Vangelo di Giovanni, allorché “fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti dal tempio”. Eccoli, dunque, gli obiettivi dell’attacco, o meglio del contrattacco: i mercanti, i mercati, il capitalismo fossile, il “business as usual” (nel libro tradotto un po’ maldestramente come “il solito mercato”), i ricchi. Se è vero, e lo è, che “l’1 per cento più ricco dell’umanità ha emesso il doppio del 50 per cento più povero”, (ne abbiamo parlato anche noi in questo articolo) chi potrebbe e soprattutto dovrebbe cominciare per primo a diminuire le sue emissioni? SUV (nel libro è spiegato come sgonfiarne le gomme), yachts, jet privati sono quindi giocoforza in cima alla lista degli obiettivi che una rivolta contro il capitalismo fossile potrebbe un giorno colpire (scrive: “se non riusciamo a liberarci delle emissioni più scandalosamente voluttuarie, come faremo mai a incamminarci verso lo zero?).

La guerra alla disperazione è il tema del terzo e ultimo capitolo del breve saggio: la disperazione a cui allude e che fa infuriare Malm non è la frustrazione del poveraccio che si trova ad affrontare senza mezzi le conseguenze catastrofiche della crisi climatica. Nel bersaglio di Malm ci sono alcuni controversi “intellettuali” occidentali, fra cui tale Roy Scranton, che teorizzano la “futilità di protestare o resistere”, sostenendo che non c’è più niente da fare e che ormai siamo spacciati. Secondo l’autore questo tipo di disperazione tradisce in realtà un pensiero debole del tipo: “Non posso cambiare niente perché non sono disposto a cambiare niente”, ovvero, detto altrimenti: “E’ più facile che il mondo finisca, ma non che io mi perda un filet mignon”. Sul banco degli imputati troviamo anche il celebratissimo scrittore americano Jonathan Franzen, colpevole di una rassegnazione più soft – non possiamo fare nulla, ma siamo in grado di adattarci –, ma non meno insidiosa, perché in entrambi i casi la risposta è l’inazione. In definitiva, sembra suggerire Malm, atteggiamenti “filosofici” di questo tipo derivano da una posizione in fin dei conti troppo comoda, quella dei ricchi occidentali che in qualche modo pensano di potersela cavare. Scrive infatti che: “Dove la morte per il clima è un fatto, e non uno sfizio filosofico, il fatalismo programmatico della scuola Scranton-Franzen ha trazione zero”.

Vignetta apparsa in India durante l’ondata di caldo della primavera 2022. “Cosa pensi si romperà per primo? Il termometro o il silenzio del governo sulla catastrofe climatica?” (Fonte: Ajish George (@Ajish) /Twitter)

Per concludere, quando parte il contrattacco?

Impareremo davvero a combattere in un mondo che brucia, come recita il sottotitolo del saggio di Andreas Malm? Scriviamo queste righe in una delle tante giornate di caldo estenuante in questa ennesima estate tropicale italiana cominciata a maggio e caratterizzata da una siccità senza precedenti. I nostri governanti, compresi quelli che dovrebbero occuparsi della questione ecologica, hanno passato gli ultimi mesi a setacciare riserve di idrocarburi fossili in ogni parte del mondo per liberarci dalla dipendenza dal gas russo (e buttarci tra le braccia di altre nazioni non meno instabili e antidemocratiche). Ma di questo passo, con il livello dei fiumi che continua a scendere, diventerà difficile perfino fare funzionare le centrali termiche tradizionali perché mancherà l’acqua per raffreddarle.

Mentre scriviamo in tutto il mondo i magnati dell’industria fossile si fregano le mani: stanno facendo affari d’oro perché il prezzo della loro merce è alle stelle. E con una parte di quei soldi (quelli che non avranno speso per ville, yachts di 100 metri e jet privati) programmano di finanziare nuovi investimenti, nuove perforazioni, nuove esplorazioni, con la benedizione di governi accondiscendenti, se non complici.

Dopo la terribile ondata di caldo primaverile indiana, diversamente dal romanzo di Robinson, non è nato alcun movimento di sabotaggio dell’industria fossile. Al contrario, perfino durante quel periodo il tema del cambiamento climatico è stato accuratamente rimosso (si veda questo approfondito dossier pubblicato su CarbonBrief). Con queste premesse, dopo trent’anni di allarmi caduti nel vuoto, l’atteggiamento forse più razionale e certamente, almeno per ora, più comodo, sarebbe la filosofia della disperazione, “il fatalismo programmatico della scuola Scranton-Franzen”. O magari no, potremmo iniziare a imparare a combattere per la nostra sopravvivenza. Leggete il libro di Andreas Malm.

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Lorenzo Danieli

Sono nato a Como nel 1971 e ancora oggi risiedo nei pressi del capoluogo lariano. Dopo la maturità scientifica ho studiato fisica all’Università degli Studi di Milano, dove mi sono laureato con una tesi di fisica dell’atmosfera. La passione per la meteorologia è nata quando ero un ragazzino e si è trasformata successivamente nella mia professione. Con il tempo sono andati crescendo in me l’interesse per la natura e per tutte le tematiche legate all’ambiente, fra le quali le cause e le conseguenze del cambiamento climatico.

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