Cambiamento climatico: il ruolo dell’agricoltura e dell’allevamento (II parte)
Come l’agricoltura potrebbe diventare un’alleata nella battaglia per la salvaguardia del clima
Nella prima parte di questa breve analisi abbiamo introdotto alcune nozioni di base e qualche numero che ci hanno permesso di familiarizzare con le complesse tematiche dei rapporti tra il clima ed i settori dell’agricoltura e dell’allevamento (e, per estensione, quello della gestione della foreste). Se è vero che un terzo delle terre emerse è utilizzato per scopi agricoli, come lo è che il 24% delle emissioni climalteranti è rilasciato da questa attività, è chiaro che questo settore deve essere necessariamente coinvolto nell’impresa di mitigazione climatica. Incidentalmente, osserviamo che l’agricoltura e l’allevamento forniscono cibo, un servizio di cui non si può fare a meno; inoltre agricoltura, allevamento e silvicoltura modellano da millenni il paesaggio umano e si legano profondamente con le nostre tradizioni culturali e religiose. Esaurita questa doverosa premessa, torniamo alla domanda che avevamo lasciato in sospeso alla fine della prima parte: è possibile ridurre gli impatti ecologici e climatici dell’agricoltura? E’ addirittura possibile che l’agricoltura e la silvicoltura possano essere alleati nella riduzione della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera (tramite le cosiddette Emissioni Negative)? Il tema delle emissioni negative è sterminato e di elevata complessità: qui proveremo a fornire solo alcuni spunti, rimandando per gli approfondimenti alla letteratura scientifica disponibile (*) e ad articoli più mirati .
In sintesi, e semplificando moltissimo, il modello agricolo dominante dell’era moderna (l’agricoltura intensiva che sfama mezzo mondo) prevede la coltivazione a monocoltura di ampie superfici, grazie ad un forte ricorso alla meccanizzazione, ai cosiddetti pesticidi, ai fertilizzanti di sintesi ed eventualmente all’irrigazione. I limiti principali di questo sistema (praticato soprattutto fuori dal nostro Paese, che non dispone di vaste pianure) sono la perdita di biodiversità, l’impoverimento di sostanza organica del suolo, il dilavamento dell’azoto e del fosforo contenuto nei fertilizzanti, con conseguente eutrofizzazione delle acque. Diversamente che nell’agricoltura intensiva, nell’agricoltura biologica si pratica la rotazione delle colture (ad esempio alternando cereali e leguminose, piante che arricchiscono il terreno di azoto); pesticidi, fertilizzanti sintetici, antibiotici e altre sostanze sono soggette a forti restrizioni; per fertilizzare si sfruttano i prodotti dell’azienda (letame, compost); si cerca di valorizzare specie vegetali e animali resistenti naturalmente alle malattie, privilegiando le tipicità del luogo, ecc.. Naturalmente non esiste un muro invalicabile tra i due approcci: anche l’agricoltore “moderno” magari pratica la rotazione delle colture, o adotta la lotta biologica agli insetti dannosi se questa funziona e conviene, sparge sui campi il suo letame se ne ha disponibilità. Quello che su cui intendiamo soffermarci, per l’attinenza alla questione climatica, è il ruolo che l’agricoltura può svolgere nella mitigazione, cioè nella riduzione nella concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera. Il suolo infatti contiene carbonio, nella forma di tessuti vegetali (radici, parti vegetali non decomposte), funghi, piccoli invertebrati e batteri. Quando il suolo viene “disturbato”, dal disboscamento prima e dalle arature in seguito, il carbonio organico viene esposto all’azione dell’ossigeno e si trasferisce nell’aria nella forma di CO2; arricchire il suolo di carbonio evitando dunque di dover disboscare e arare in profondità (SCS, Soil Carbon Sequestration) risulterebbe quindi una strategia efficace per sottrarre questo elemento all’atmosfera. L’aspetto più interessante della SCS è che si tratta di un approccio “win win”, come si usa dire oggi, una tecnica poco costosa che porta con sé molti benefici e pochissimi o nessuno effetto collaterale. Il suolo arricchito di materia organica (ad esempio tramite l’apporto di compost o di letame), risulta più fertile, meno erodibile, più lavorabile e, soprattutto, in grado, come una spugna, di trattenere una maggiore quantità di acqua, riducendo quindi il fabbisogno di irrigazioni. In pratica, si tratta di replicare su larga scala quello che i contadini e perfino gli hobbisti orticoltori nelle città praticano da sempre nelle loro piccole superfici, utilizzando come ammendante gli scarti delle coltivazioni, le deiezioni degli animali o i resti delle potature. Altre tecniche per ottenere un incremento di carbonio nel suolo consistono nei cosiddetti “cover crops” e nel ricorso ad arature meno profonde (o addirittura nessuna aratura). Nel primo caso nei campi vengono intercalati filari di alberi e arbusti, che, oltre a trattenere carbonio nelle loro radici, consolidano i terreni, possono ombreggiare e proteggere dal vento le colture, possono ospitare insetti o animali utili per la lotta alle specie dannose e fornire legno; le arature leggere, infine, hanno il vantaggio di non smuovere il suolo profondo, non esponendo il carbonio all’aria e non disturbando la preziosa attività biologica di funghi, vermi e batteri. Come potete intuire un’agricoltura di questo tipo, oltre a sequestrare più carbonio, è anche un’agricoltura che rispetta maggiormente la biodiversità e che è intrinsecamente più sostenibile poiché ha un minore fabbisogno di fertilizzanti di sintesi e, come abbiamo visto, anche di acqua. Il potenziale globale di sequestro di CO2 (si veda l’articolo su Environmental Research Letters già citato) è stimato essere nell’ordine di 2.3-5.3 Gt di CO2 all’anno, (1Gt corrisponde ad un miliardo di tonnellate) con una miglior stima 3.8, cifra, che per chi non avesse familiarità con queste grandezze, può essere confrontata con le circa 40 Gt, sempre di CO2, che sono emesse annualmente dalle attività umane. Questi numeri ci riportano con i piedi per terra: stiamo dicendo che un’applicazione globale (uno sforzo gigantesco e condiviso da tutte le nazioni della Terra) della tecnica di SCS porterebbe ad un assorbimento di circa un decimo delle nostre emissioni. La strada maestra per non finire arrostiti resta quella di ridurre le emissioni, principalmente riducendo il ricorso ai combustibili fossili. Tuttavia, e su questo argomento torneremo ancora senz’altro, gli scenari dell’IPCC di mitigazione del riscaldamento a +2°C, e ancora di più quelli a 1.5°C, prevedono tutti un ricorso alle emissioni negative, insieme alla de carbonizzazione dell’economia. Bisogna anche aggiungere che anche una tecnica apparentemente naturale e innocua come la SCS non è del tutto priva di controindicazioni: le principali sono l’effetto di saturazione (in parole semplici: c’è un limite alla quantità di materia organica che possiamo incorporare nei suoli) e la necessità di dovere continuamente ripristinare l’apporto organico nel terreno per ovviare alla parte che si decompone. Questi limiti, in particolare il primo, fanno sì che il potenziale di sequestro decresca progressivamente di anno in anno, fino a raggiungere idealmente il valore zero nel momento in cui tutti i suoli adatti siano stati utilizzati. Con riferimento all’agricoltura biologica, cui si è brevemente fatto cenno prima, una delle obiezioni più comuni è la riduzione dei raccolti (in media del 20 %). E ci fermiamo qui: un discorso dove entrano in scena gli spaventosi sprechi della catena alimentare, o il miliardo di bipedi sovrappeso ci porterebbe largamente fuori tema.
Altre tecniche che coinvolgono il settore agro-forestale nella mitigazione climatica
Passiamo ora rapidamente in rassegna altre tecnologie per il sequestro del carbonio (NET, Negative Emissions Technologies) che riguardano già ora, o potranno coinvolgere prossimamente, l’ambito agricolo e forestale, riservandoci di approfondire in futuro questi argomenti, ciascuno di per sé estremamente interessante.
BECCS (Bioenergy with Carbon Capture and Storage) Questa tecnologia di sequestro del CO2 si propone di sfruttare la biomassa (prodotta da scarti o coltivata appositamente) per produrre energia e, allo stesso tempo, di “catturare” il biossido di carbonio. Successivamente il CO2 viene immagazzinato in posti dove possa risiedervi per molto tempo (ad esempio all’interno di vecchi giacimenti esauriti di gas e petrolio).
Riforestazione ed forestazione Come suggerisce il nome, si tratta di piantare alberi che crescendo immagazzinano il carbonio nei loro tessuti. Con la riforestazione si cerca di ripristinare la foresta dove essa esisteva già; con la forestazione la foresta viene creata in nuove aree. La forestazione è particolarmente controindicata alle alte latitudini: i suoli coperti da foreste sono più scuri della neve durante la lunga stagione invernale, la neve fonde prima e il terreno si scalda di più, che è proprio l’opposto di quello che si vuole ottenere.
Biochar Il termine biochar indica un materiale carbonioso ottenuto per degradazione termica (pirolisi) della biomassa (sia di origine vegetale che animale). Questo materiale può essere sparso nei campi come un compost. A differenza del compost esso si degrada molto più lentamente. Tra le controindicazioni una riguarda il suo colore: essendo nero esso rende più scuro il suolo.
Enhanced weathering La tecnica consiste nel favorire e rendere più efficace su larga scala il processo naturale di erosione chimica (weathering) che subiscono alcune rocce (ad esempio il carbonato di calcio). In questo processo la roccia viene dissolta dall’acqua e dal CO2 atmosferici, con sequestro del biossido di carbonio ed il rilascio dei reagenti nel suolo. La tecnica può anche arricchire il terreno di elementi utili e aumentare la resa agricola. L’incremento di questo processo naturale viene ottenuto sbriciolando grandi quantità di roccia e successivamente spargendola sui suoli.
(*)Negative emissions-Part 2: Costs, potentials and side effects Environmental Research Letters 13 (2018)