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Grandi opere e ambiente: una convivenza possibile?

Molte infrastrutture sono incompatibili con la difesa del clima e degli ecosistemi, altre possono diventare esempi virtuosi. Il caso di Alp Transit.

Sono passati quasi 30 anni dal 27 settembre 1992, il giorno in cui i cittadini svizzeri vennero chiamati ad esprimersi in un referendum su Alp Transit. Il progetto ricevette il consenso di circa il 64% dei votanti e in ventuno cantoni su ventitré. Successivamente (nel febbraio del 1994) il popolo svizzero si recò ancora una volta alle urne per votare sulla cosiddetta “Iniziativa delle Alpi”, che fu approvata con il 52% dei voti. Questa iniziativa popolare chiedeva niente meno che iscrivere nella Costituzione svizzera l’obbligo di trasferire le merci dalla strada alla ferrovia. Il processo partecipativo del popolo svizzero su questo tema non era ancora esaurito dato che pochi anni dopo, nel 1998, esso venne chiamato ad approvare un terzo referendum che proponeva di modificare la tassa sul traffico pesante per completare il finanziamento dell’opera: secondo la regola, insomma, che chi inquina paga.

Alp Transit è un progetto complesso di attraversamento ferroviario delle Alpi lungo l’asse del San Gottardo, il passo alpino che collega la regione di Zurigo (insieme all’Europa Centrale) con il settore elvetico della valle del Ticino e la vicina Lombardia. Il perno dell’opera consiste nella galleria di base del San Gottardo, un tunnel ferroviario di ben 57 km che è entrato in funzione alla fine del 2016 dopo 17 anni di lavori a ritmo serrato ed il superamento di non poche difficoltà tecniche. Recentemente (dicembre 2020) è stata aperta al traffico anche la galleria di base del monte Ceneri, una tunnel ferroviario “minore” (ma della lunghezza di oltre 15km!) che permette di superare l’omonimo ostacolo orografico presente tra la regione di Bellinzona e quella di Lugano, nel Canton Ticino. Grazie al completamento del traforo del monte Ceneri per un treno è oggi possibile attraversare le Alpi lungo il fondamentale corridoio nord-sud rimanendo su un percorso pressoché pianeggiante: questo consente di risparmiare tempo (la linea permette il transito di treni ad alta velocità) ed energia (convogli merci fino a 2000 tonnellate non hanno bisogno di locomotori supplementari).

Abbiamo voluto sintetizzare questa storia svizzera di successo perché può insegnare molto, in particolare a noi italiani, da decenni alle prese, fra l’altro, con le polemiche legate alla realizzazione della linea Torino-Lione (si veda qui , a titolo di esempio, una presa di posizione su TAV in relazione alle politiche climatiche). Il progetto Alp Transit ha visto fin dal principio il coinvolgimento attivo delle popolazioni interessate, da subito sono stati chiari i costi, i tempi di realizzazione e gli obiettivi, al punto da arrivare a sancire in costituzione la priorità dello spostamento del traffico merci dalla strada alla rotaia … erano i primi anni 90 e Greta Thunberg sarebbe nata solo dieci anni dopo.

Traffico pesante in autostrada. Immagine di pixabay

L’esempio di Alp Transit indica un percorso virtuoso, ma non possiamo nasconderci che le cosiddette “grandi opere” presentino molto spesso numerosi aspetti oggettivamente problematici che le rendono incompatibili con gli obiettivi dello sviluppo sostenibile e della salvaguardia del clima. Il termine “grande opera” naturalmente non ha un significato preciso, ma quando ne facciamo uso pensiamo prima di tutto alle grandi infrastrutture stradali e ferroviarie. Sono da considerarsi grandi opere, o possono esserlo, anche porti, gasdotti, elettrodotti, grandi dighe (per queste però in Italia non vi è più spazio), acquedotti ecc.. La maggioranza di queste infrastrutture è accomunata da alti bisogni di cemento, di acciaio, e dalla necessità di movimentare enormi quantità di terra. Ricordiamo che la produzione di cemento e acciaio è responsabile ogni anno del 16% delle emissioni globali di gas serra. Non bastassero questi numeri dietro a molte infrastrutture vi sono pesanti costi ambientali, talora nascosti e non facili da valutare. Pensiamo alle autostrade: assecondano un modo inefficiente di trasportare merci e persone (il trasporto su gomma); sono accompagnate da un enorme consumo di suolo, provocano la frammentazione della superficie agricola e degli ecosistemi; per di più ogni nuova opera viaria, spesso venduta con la scusa di snellire il traffico, rappresenta sempre un formidabile cavallo di Troia per nuovi insediamenti associati ad altro consumo di suolo e ad un paesaggio ancora più banalizzato. In definitiva le grandi opere stradali sono veri e propri killer dell’ambiente e la loro costruzione andrebbe in ogni modo evitata (salvo i casi di reale e comprovata necessità). Le infrastrutture ferroviarie sono in generale più sostenibili (una linea ferroviaria consuma meno suolo,  può essere facilmente elettrificata ed è energeticamente più efficiente), ma anche per queste è fondamentale stabilire delle priorità e operare scelte con rigore scientifico. Il nostro Paese, per esempio, si distingue per una orografia complessa e per le tante piccole città disseminate sul territorio, caratteristiche che lo rendono poco adatto allo sviluppo su larga scala delle linee ad Alta Velocità. Inoltre è opportuno ricordare che la maggior parte di noi si sposta quotidianamente su distanze brevi e all’interno di realtà congestionate: in tempi di risorse scarse e in vista di una sempre più urgente decarbonizzazione dei trasporti è giusto chiedersi se non ci servano prima di tutto più tram, nuove linee metropolitane e treni regionali efficienti.

Porto marittimo affollato di containers. Foto di Tom Fisk su Pexels.com

Spostandoci su un piano ancora più generale, dovremmo cominciare a pensare alle opere infrastrutturali (piccole o grandi che siano) valutandole nel contesto di un’economia sostenibile per l’ambiente o meglio, di un’economia ecologica che punti per quanto possibile all’autosufficienza (per un’introduzione a questo tema: “Il Green new deal” di Ann Pettifor). In definitiva il paradigma economico dominante, che sembra conoscere solo la parola “crescita”, va seppellito in favore di un approccio diverso: non è possibile assecondare l’aumento incessante delle produzione di merci e della loro movimentazione, né la continua domanda di spostamento delle persone. Tutto ciò è fisicamente, prima ancora che ambientalmente, insostenibile. L’unica opera pienamente sostenibile è quella che non avremo avuto bisogno di costruire, magari perché avremo fatto manutenzione a ciò che è già esistente, o perché lo avremo reso più efficiente e moderno.

Lorenzo Danieli

Sono nato a Como nel 1971 e ancora oggi risiedo nei pressi del capoluogo lariano. Dopo la maturità scientifica ho studiato fisica all’Università degli Studi di Milano, dove mi sono laureato con una tesi di fisica dell’atmosfera. La passione per la meteorologia è nata quando ero un ragazzino e si è trasformata successivamente nella mia professione. Con il tempo sono andati crescendo in me l’interesse per la natura e per tutte le tematiche legate all’ambiente, fra le quali le cause e le conseguenze del cambiamento climatico.

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