Lo stile di vita della classe media globale come fattore cruciale del deterioramento ambientale
Secondo storici ed economisti occorre ripensare radicalmente il concetto di benessere

Negli ultimi decenni la crescita della classe media globale ha rappresentato una delle trasformazioni sociali più significative. Secondo la Banca Mondiale e l’OCSE, oggi oltre 3 miliardi di persone possono essere considerate parte di questa fascia, con redditi e stili di vita che consentono consumi prima riservati a élite ristrette. Questo fenomeno ha avuto effetti ambientali devastanti: aumento della domanda di energia, crescita del consumo di carne e prodotti animali, boom dei trasporti privati, espansione edilizia, elettronica e fast fashion.
Lo storico indiano Dipesh Chakrabarty è intervenuto durante una lezione online da Chicago, nel corso dell’evento “Imagining Life” organizzato dal Climate Action Centre spiegando come lo stile di vita della classe media globale sia un fattore cruciale nel deterioramento ambientale della Terra. Ha sottolineato che fino all’inizio del XXI secolo il cambiamento climatico non era un tema centrale nel dibattito intellettuale, nonostante i primi segnali fossero già evidenti. Ha poi richiamato l’attenzione su un dato rilevante: fra il 1900 e il 2000 la popolazione mondiale è passata da 1,5 a 6 miliardi, raggiungendo oggi quasi 8 miliardi, un incremento che ha fortemente spinto la domanda di risorse e cibo, guidando un modello di sviluppo industrializzato e insostenibile. In sintesi, Chakrabarty durante il suo intervento, ha fatto notare come sia stata proprio questa espansione della classe media e il suo stile di vita consumista (in termini di energia, beni materiali, mobilità, alimentazione, ecc.) ad aver portato all’attuale crisi ambientale.
Altri storici e teorici hanno elaborato cornici interpretative complementari. Jason W. Moore, ad esempio, ha coniato il termine Capitalocene per superare il concetto di Antropocene: non l’umanità in astratto, ma il capitalismo moderno e i consumi che esso genera e impone, sarebbero il vero motore della crisi ecologica. In questa lettura, la classe media è al contempo beneficiaria e vittima: spinta a consumare come simbolo di status, ma anche vulnerabile ai disastri climatici che ne derivano.
All’interno della tradizione del sistema-mondo di Immanuel Wallerstein, il consumismo delle società centrali (e ora di quelle emergenti) si regge sull’estrazione di risorse e sullo sfruttamento del lavoro nelle periferie. La crescita delle classi medie in paesi come India, Cina e Brasile ha ampliato questo modello, facendo sì che miliardi di persone aspirino agli stessi standard di vita di Stati Uniti o Europa occidentale, standard insostenibili su scala globale.
Sul fronte economico, già nel 1972 il Rapporto Meadows sui limiti della crescita aveva avvertito che l’espansione illimitata dei consumi avrebbe portato a collasso ecologico. Oggi, economisti come Kate Raworth propongono la Doughnut Economics, un modello che mira a bilanciare il soddisfacimento dei bisogni umani essenziali con il rispetto dei limiti planetari. La sfida è chiara: come garantire benessere a miliardi di persone senza oltrepassare le soglie critiche di emissioni, deforestazione, perdita di biodiversità e inquinamento.
Il nodo di queste riflessioni non è certamente criminalizzare la classe media, ma riconoscere che il suo stile di vita è diventato il modello culturale dominante e che se questo modello resta quello attuale, basato su auto private, alimentazione iper-proteica, obsolescenza programmata e consumi energetici elevati, il Pianeta non potrà reggere. Le prospettive di storici ed economisti convergono su un punto: occorre ripensare radicalmente il concetto di benessere. Ridurre la centralità del PIL e sostituirla con indicatori di sostenibilità, promuovere consumi circolari e sobri, e investire in infrastrutture condivise come trasporto pubblico ed energie rinnovabili.