InquinamentoTerritorio

Rifiuti tessili in Africa: quasi metà degli abiti usati arriva dall’Europa e diventa scarto

Ogni anno nel mondo si producono circa 83 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, di cui il 65% è composto da fibre sintetiche derivate dal petrolio. Secondo un nuovo report pubblicato da Greenpeace, ogni secondo l’equivalente di un camion della spazzatura pieno di vestiti viene bruciato, disperso o buttato in discarica. Una parte consistente di questi rifiuti finisce in Africa, dove il 46% degli abiti usati esportati dall’Unione Europea si trasforma in scarto, aggravando una crisi ambientale spesso invisibile nei Paesi d’origine.

rifiuti tessili africa inquinamento - foto greenpeace (1)
Caprette nella discarica di Weija Ashbread, una vecchia discarica tessile a monte della zona umida protetta del Delta del Densu, alle porte di Accra, in Ghana.

A fotografare il fenomeno è il nuovo report di Greenpeace Africa, Draped in Injustice, che indaga gli effetti del commercio di abiti di seconda mano in sei Paesi particolarmente impattati: Angola, Kenya, Repubblica Democratica del Congo, Tunisia, Ghana e Benin. Solo nel 2022, queste nazioni hanno ricevuto quasi 900 mila tonnellate di vestiti usati. In Kenya, ad esempio, nel 2021 sono arrivati 900 milioni di capi, principalmente da Europa e Regno Unito. Di questi, però, la metà era inutilizzabile per via della pessima qualità, e ha finito per alimentare discariche illegali, incendi all’aperto e l’inquinamento di fiumi come il Nairobi.

Stesso copione in Uganda, dove nel 2023 sono state importate 100 mila tonnellate di abiti, perlopiù da Cina, USA e Canada. Ogni giorno si stima che fino a 48 tonnellate diventino immediatamente rifiuti tessili.

Il caso Ghana è tra i più eclatanti: nei mercati arrivano 15 milioni di indumenti a settimana, e quasi la metà finisce direttamente nell’ambiente. Un’inchiesta condotta da Unearthed e Greenpeace Africa ha documentato enormi accumuli di vestiti a cielo aperto nei pressi di Accra, in un’area umida tutelata dalla Convenzione di Ramsar e habitat di tre specie di tartarughe marine. I capi – marchiati M&S, Zara, H&M, Primark – provengono dal Regno Unito e dall’Europa. Alcuni sono stati trovati anche sulle rive del fiume che sfocia nella zona protetta, mentre la popolazione locale denuncia spiagge e corsi d’acqua invasi da indumenti sintetici.

«Il documento di Greenpeace Africa mostra con chiarezza una realtà fuori controllo», spiega Chiara Campione, responsabile della campagna tessile per Greenpeace Italia. «Siamo davanti a un’emergenza ambientale e sanitaria nei territori più vulnerabili. Serve intervenire alla radice, cambiando i sistemi produttivi del fast fashion».

rifiuti tessili africa inquinamento - foto greenpeace (1)
Tessili e altri rifiuti plastici all’esterno delle case della discarica di Weija Ashbread, una vecchia discarica tessile a monte delle zone umide protette del Delta del Densu, alle porte di Accra, in Ghana.

I numeri e i danni del fast fashion

L’industria della moda è responsabile di fino al 10% delle emissioni globali di gas serra. Le catene di produzione ad alta intensità energetica e il modello usa-e-getta tipico del fast fashion aggravano l’impronta ecologica del settore. I tessuti sintetici, inoltre, rilasciano microplastiche che danneggiano mari e oceani, compromettendo la loro capacità di assorbire CO₂.

A tutto questo si aggiunge il carico chimico: delle oltre 3.000 sostanze usate nei processi di lavaggio e tintura, almeno 250 sono note per essere pericolose. I vestiti invendibili o scartati finiscono spesso in discariche abusive, ostruiscono gli scarichi e contaminano terra, aria e acqua, contribuendo alla diffusione di malattie.

rifiuti tessili africa inquinamento - foto greenpeace (1)
Il reporter Mike Anane osserva i rifiuti tessili nella discarica di Weija Ashbread, una vecchia discarica tessile situata sul fiume Densu, a monte delle zone umide protette, fuori Accra, in Ghana.

Le falle delle normative

Nel 2022 l’Unione Europea ha varato la Strategia per prodotti tessili sostenibili e circolari, che punta a estendere la responsabilità del produttore (EPR) per l’intero ciclo di vita del prodotto e a limitare le esportazioni verso i Paesi non OCSE. Ma la regolamentazione è ancora in fase di sviluppo e, secondo Greenpeace, non garantisce una reale responsabilità dei marchi né aiuta concretamente i territori colpiti dagli impatti delle esportazioni europee.

Le richieste di Greenpeace

L’associazione ambientalista propone una serie di azioni concrete per uscire dall’emergenza:

  • approvare un Trattato globale sulla plastica, che limiti anche la produzione di tessuti sintetici
  • imporre ai marchi l’EPR obbligatoria lungo tutta la filiera
  • applicare una strategia di eco-design e vietare le sostanze tossiche
  • sviluppare impianti per il riciclo e la gestione locale dei rifiuti tessili
  • sostenere la produzione locale e l’upcycling
  • investire nella ricerca e applicare il principio del “chi inquina paga
  • avviare campagne di educazione e sensibilizzazione

Il ruolo dei consumatori

Insieme a una petizione per chiedere al governo di contrastare il fenomeno, Greenpeace Italia ha pubblicato il manuale gratuito Oltre il fast fashion, pensato per aiutare chi acquista a fare scelte più consapevoli. Nella guida ci sono consigli pratici per riconoscere i vestiti più inquinanti, orientarsi tra le certificazioni più affidabili e ridurre l’impatto dei propri acquisti.

In un mondo sommerso dai vestiti usa-e-getta, iniziare a fare scelte informate è un primo passo per non trasformare la solidarietà in una nuova forma di inquinamento.


NOTE: questo articolo è stato generato con il supporto dell’intelligenza artificiale.

Redazione

Redazione giornalistica composta da esperti di clima e ambiente con competenze sviluppate negli anni, lavorando a stretto contatto con i meteorologi e i fisici in Meteo Expert (già conosciuto come Centro Epson Meteo dal 1995).

Articoli correlati

Back to top button