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I Patriarchi della Natura: alberi secolari, custodi dei segreti della resilienza e alleati per affrontare i cambiamenti climatici

Gli alberi plurisecolari e millenari in Italia fanno parte degli oltre ventimila alberi monumentali censiti fino ad ora

Gli alberi plurisecolari e millenari che impreziosiscono anche il patrimonio verde dell’Italia dimostrano con la loro longevità di essere riusciti ad adattarsi ai cambiamenti ambientali e a contrastare efficacemente le malattie. Potrebbero dunque sopravvivere anche ai rapidi cambiamenti climatici in corso, ed essere gli alberi del futuro. Le banche genetiche ne conservano così i figli e i cloni.

Quando tutti noi, anche i più anziani, siamo nati, c’erano già. C’erano quando due guerre mondiali dilaniavano l’Italia e l’Europa, quando Garibaldi sbarcava a Marsala con i mille per unificare quell’Italia, quando Leonardo da Vinci dipingeva la Gioconda e Cristoforo Colombo poggiava piede in America , alcuni erano già antichi quando San Francesco d’Assisi componeva il Cantico delle Creature.
Da centinaia di anni regalano bellezza, cibo, ombra e aria fresca, sono la casa o il temporaneo rifugio di molti animali, abbracciano il terreno con le radici e lo rendono più stabile, catturano CO2 e con l’energia pulita del sole rilasciano ossigeno.

Sono gli alberi plurisecolari e millenari, che in Italia fanno parte degli oltre ventimila alberi monumentali censiti fino ad ora. Di questi, 3662 sono ad oggi già inseriti nella lista redatta dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, e protetti con la legge nazionale numero 10 del 2013, che con l’articolo 7 definisce i criteri di monumentalità e detta le disposizioni per la loro tutela e salvaguardia.

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Gli alberi monumentali italiani

Gli alberi monumentali sono esemplari considerati “rari esempi di maestosità e longevità, per età o dimensioni, o di particolare pregio naturalistico, per rarità botanica e peculiarità della specie, ovvero che recano un preciso riferimento ad eventi o memorie rilevanti dal punto di vista storico e culturale, documentario o delle tradizioni locali”. A essi appartengono anche “i filari e le alberate di particolare pregio paesaggistico, monumentale, storico e culturale e gli alberi d’alto fusto inseriti in particolari complessi architettonici di importanza storica e culturale, quali ville, monasteri, chiese, orti botanici e residenze storiche private”.

L’elenco aggiornato degli alberi monumentali italiani attualmente inseriti nella lista è visualizzabile su Google Maps . Mediante il link al catalogo online è possibile localizzare (e raggiungere)  un albero, nonché ottenere informazioni sulle caratteristiche e la storia che lo hanno portato ad essere considerato un monumento.

Le specie più diffuse sono la quercia, il faggio, il leccio, il platano comune, la sughera, il larice e il castagno. La maggior parte rientra nel criterio naturalistico legato all’età e alle dimensioni, si tratta dunque perlopiù di veri e propri giganti di venerabile età: dal Platano comune di Villa Erba a Cernobbio , il più alto ( 55,5 metri), ai due Ficus di Villa Garibaldi e Villa Niscemi, a Palermo, i più larghi (36 metri di circonferenza), all’Olivastro di Luras, presso Tempio Pausania (Sardegna), il più antico d’Italia e uno dei più vecchi d’Europa.

S’Ozzastru (olivastro) o il Patriarca, così chiamato dalla popolazione locale, si trova nei pressi della chiesa di San Bartolomeo, in Gallura. E’ un olivo selvatico alto ben  14 metri e con una circonferenza  alla base di quasi 20 metri. La chioma ombreggia una superficie di circa 600 mq e il diametro basale del fusto è di circa 4,5 metri. L’età stimata è compresa tra i 2500 e i 4000 anni. Poco distante si trova un secondo esemplare di circa 2000 anni e dimensioni inferiori, i cui rami, toccando il suolo, creano una splendida galleria frondale, cioè una sorta di  grande “caverna verde”.

© Benoît Prieur / Wikimedia Commons / CC BY-SA 4.0

Il Castagno dei Cento Cavalli  vive invece in Sicilia, nel Parco Regionale dell’Etna. Si stima abbia tra i 2000 e i 4000 anni. Di questo magnifico albero ci sono notizie certe nei carteggi del XVI secolo e nel corso degli anni è stato più volte citato da diversi autori, ammirato per la sua gigantesca mole, dalla quale dipende il suo nome. La leggenda vuole, infatti, che sotto i suoi rami una regina abbia trovato riparo da un temporale insieme a tutto il suo seguito, composto da cento cavalieri a cavallo. Forse si trattò di Giovanna D’Aragona, o forse dell’imperatrice Isabella d’Inghilterra, per alcuni Giovanna I d’Angiò.

Attualmente questo meraviglioso patriarca vegetale è costituito da tre fusti  alti 13, 20 e 21 metri e il tronco vanta una circonferenza  di 22 metri. Il Castagno è stato inserito nel libro dei Guinness dei primati, conquistando il titolo di albero più grande del mondo per la rilevazione del 1780, che misurò ben 57,9 m di circonferenza. Nel 2006 l’Unesco ha dichiarato il Castagno “Monumento messaggero di pace, simbolo della potenza generatrice della natura e della forza della vita che nasce e sempre si rigenera.

Il Castagno dei Cento Cavalli, dipinto di Jean-Pierre Houël (ca. 1777) – Wikimedia commons

Anche il Parco Nazionale del Pollino, riconosciuto patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, ha il suo Patriarca. Si tratta di un Pino loricato, così chiamato per la caratteristica corteccia che ricorda le squame del coccodrillo. Specie endemica di queste zone e vero e proprio fossile vivente, il Pino loricato è  presente in Italia solo in questa parte dell’Appennino calabro -lucano con circa 2000 esemplari,  ciò che resta delle foreste mediterranee che in epoca preistorica coprivano parte dell’Italia meridionale e i Balcani. Si tratta di una specie adattata ad ambienti estremi d’alta quota, freddi e aridi, che vive sia in colonie rade, sia in forma isolata in zone molto impervie, in questo caso con forme contorte e adattate ai venti dominanti.

Italus, questo è il suo nome, vegeta sul versante Sud di Serra della Ciavole, in Calabria, ad una quota di quasi 1900 metri. Non potendo compiere  la classica conta degli anelli di accrescimento a causa della cavità presente al centro del tronco, per ottenere una datazione attendibile del pino i ricercatori che hanno realizzato l’eccezionale scoperta sotto la guida del professor Gianluca Piovesan (Università degli Studi della Tuscia), hanno utilizzato un metodo innovativo, unendo i principi della dendrocronologia alla datazione al radiocarbonio su campioni di tronco e radici. Hanno così scoperto che il venerabile albero ha 1233 primavere. Le analisi sui campioni lignei di Italus hanno permesso inoltre di ricostruire i picchi di attività solare nella regione nell’arco di 1000 anni.

Italus è riuscito a sopravvivere a due secoli di sofferenza e di scarsa crescita, conclusi qualche decennio fa: oggi l’albero ha buona salute e ha ricominciato a crescere, superando i 10 metri di altezza, per un diametro del tronco di 160 centimetri.

“Ambienti come le pinete rupestri di loricato o i boschi vetusti meritano una tutela particolare – ha spiegato il professor Piovesan –  poiché svolgono un ruolo insostituibile nella biologia della conservazione e quindi nello sviluppo sostenibile”.

Foto di Gianluca Piovesan (Università degli Studi della Tuscia) – Il Pino loricato Italus, il Patriarca del Pollino

 

Il platano millenario di Curinga

Nel Parco Nazionale della Sila, nel comune di Curinga, vegeta un  millenario Platano orientale  chiamato  Vrisi.  Albero tra i più antichi e imponenti d’Italia:  vanta 31 metri di altezza per  quasi 15 metri di circonferenza alla base. Sporge su un piccolo ruscello e si eleva all’interno di un bosco di pino nero.  Si pensa sia stato piantato dai monaci basiliani, religiosi d’Oriente, che più di mille anni fa giunsero in Calabria ed edificarono il vicino eremo di Sant’Elia.

Il tronco ha una cavità così ampia da poter ospitare diverse persone. La leggenda narra che i pastori usassero questo spazio per ripararsi dalla pioggia, accalcarsi intorno ai fuochi e allevare piccole greggi di pecore. Malgrado incendi, malattie, danni e ferite prodotte dagli animali abbiano minato la salute di questo patriarca, il monumentale albero gode ancora di discreta salute ed è diventato molto famoso.  E’ stato infatti  il rappresentante italiano tra i quattordici finalisti del concorso  europeo “Tree of the Year”  2021 (www.treeoftheyear.org) organizzato dalla Environmental Partnership Association (EPA),  guadagnando il secondo posto, dietro la millenaria carrasca di Lecina (Spagna) e davanti ad un antico sicomoro russo.

Custodi di microhabitat e biodiversità

Quelli che abbiamo visto sono solo pochi esempi dei più antichi alberi monumentali italiani. Dal Trentino Alto Adige alla Sicilia, ogni regione ha i suoi gioielli, in montagna, in campagna, nelle foreste e perfino in città.  Questi patriarchi vegetali non sono di grande pregio solo per la loro straorinaria bellezza, ma anche per i microhabitat che ospitano. Come spiega Livia Zapponi, ecologista della Fondazione Edmund Mach, “Lungi dall’essere oggetto meramente estetico, gli alberi monumentali sono driver di biodiversità: rami marci, buchi aperti,  crepe profonde e altre caratteristiche che suggeriscono l’invecchiamento e il decadimento sono stati  tradizionalmente visti come malformazioni. Ma queste stesse caratteristiche sono responsabili dell’attrazione degli insetti e delle loro larve, funghi, muffe, licheni, uccelli e piccoli roditori. Alcune di queste specie sono in via di estinzione, come la Rosalia longicorn, raro coleottero che vive all’interno della corteccia del faggio di Pontone [albero di 750 anni che vegeta nel Parco Nazionale di Abruzzo, Molise e Lazio – ndr]. Questi alberi, proprio con ciò che in passato erano considerati difetti, sono dunque veri e propri  microhabitat che ospitano quantità incredibili di animali e specie minacciate”.

Foto Pixabay

“Recentemente l’Abruzzo ha affrontato un inverno particolarmente rigido, con livelli di neve insolitamente elevati – spiega Romano Visci, guardaparco –  Il faggio di Pontone è sopravvissuto, ma uno dei suoi rami è crollato sotto il peso della neve. Quel legno, però, non verrà buttato via o sminuzzato per bruciarlo, rimarrà lì a nutrire un intero ecosistema: il faggio più invecchia, più marcisce, più può fornire cibo. È una catena, è un ecosistema. Piccole arvicole si sparpagliano su e giù per il tronco rotto. I picchi vi entrano e perforano il legno marcio alla ricerca di larve e insetti. Funghi a forma di disco sono emersi  sulla superficie del ramo, erodendo la corteccia, mentre scarafaggi e formiche ne rosicchiano l’interno”. “Il ramo caduto può non essere esteticamente bello – aggiunge Alberto Cocuzzi, un alto guardaparco – ma è molto di più. Il potere di questi alberi è che possono continuare a donare alla natura fino alla fine”.

Massima espressione di resilienza

Testimoni silenziosi della nostra storia antica, questi alberi hanno superato le insidie del tempo cronologico e meteorologico e sono ancora tra noi. “Possono contrastare tumori, malattie, parassiti e continuare a vivere per secoli anche quando parti importanti dei loro rami e dei tronchi sono cadute a pezzi. Sono la massima espressione della resilienza – spiega Livia Zapponi -.  Possono essere enormi, imponenti e apparentemente immuni alla morte, ma in realtà sono molto sensibili ai cambiamenti. Tendono a fare affidamento su una esistenza caratterizzata da periodi prolungati di stabilità.  Anche un’interferenza minima con l’ambiente circostante può provocare gravi danni o morte. Lo sfruttamento e la perdita  del suolo, la deforestazione, il cambiamento climatico: tutti rappresentano una seria minaccia per la sopravvivenza di questi alberi”, conclude la ricercatrice.

Nei secoli i patriarchi verdi della natura sono comunque riusciti a superare le naturali fluttuazioni del clima, dal periodo caldo medioevale, alla successiva piccola era glaciale, culminata all’epoca di Luigi XIV e terminata nel  1900. Non sono mancate fasi di prolungata siccità, seguite da periodi piovosi accompagnati da inondazioni, come avvenne poco prima dello scoppio della rivoluzione francese.  Le maestose cattedrali vegetali riusciranno ad adattarsi anche ai cambiamenti climatici provocati da noi uomini nell’ultima manciata di decenni?  Gli scenari futuri non sono molto incoraggianti, se non si porrà un rimedio: il Mediterraneo è considerato un hot spot del cambiamento climatico e per i prossimi decenni le proiezioni modellistiche prevedono l’ulteriore declino delle precipitazioni.  Le conseguenze dirette e indirette del riscaldamento globale sono ormai più che evidenti ed hanno già prodotto le loro vittime anche nel mondo vegetale:  in Abruzzo, Calabria, Sicilia e Sardegna gli incendi  di questa estate, di estensione quattro volte la media,  in poche ore hanno “cancellato il lavoro secolare della natura”, bruciando anche preziosi boschi vetusti di faggio,  la Pineta Dannunziana e il millenario olivastro di Cuglieri, in Sardegna, uno degli alberi monumentali più antichi e belli d’Italia.

Anche i fenomeni meteorologici sempre più estremi sono una vera insidia. La tempesta Vaia nell’ottobre del 2018 ha devastato le Dolomiti, abbattendo milioni di alberi, tra i quali il famoso “Avez del Prinzep” nel Comune di Lavarone: un abete bianco di 280 anni alto quasi 52 metri e con una  circonferenza  di 5,6 metri; ci volevano sei persone per abbracciarlo. Era l’abete più alto d’Europa, inserito nella lista degli alberi monumentali italiani.

Alleati per affrontare i cambiamenti climatici: le banche genetiche dell’associazione “I Patriarchi della Natura”

Gli alberi che dopo secoli o addirittura millenni vivono ancora con noi dimostrano con la loro longevità di essere riusciti fino ad ora ad adattarsi in qualche modo ai cambiamenti ambientali e a contrastare efficacemente le malattie. Potrebbero dunque avere qualche chance in più di sopravvivere anche al riscaldamento globale in corso e alle sue conseguenze, ed essere così gli alberi del futuro. Alcuni tollerano molto bene la siccità, quindi potrebbero sopravvivere in zone aride e semidesertiche.

Nel loro DNA ci sono i geni della incredibile resistenza, che  in parte vengono trasmessi ai figli. Chi meglio del venerabile albero madre e dei suoi figli potrà darci le garanzie per affrontare il futuro? Se lo è chiesto l’associazione  “I Patriarchi della Natura”, con sede a Forlì, che per conservare il prezioso patrimonio genetico contenuto nei grandi patriarchi forestali e da frutto riproduce e conserva nel tempo le piante più significative. Questa associazione ha realizzato una vera e propria rete di banche genetiche, i “giardini di biodiversità”:  aree dotate anche di nursery  in cui si trovano i figli e i cloni degli alberi più antichi e a rischio di estinzione, alcuni dei quali già scomparsi.  Il Giardino dei Patriarchi Lombardi da frutto di Milano, il Frutteto della Biodiversità a Fico di Bologna, il Giardino dei Patriarchi d’Italia a Roma e il Giardino degli Olivi Secolari del Parco storico agricolo dell’olivo di Venafro sono solo alcuni esempi.

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Laura Bertolani

Laureata in Scienze Naturali, nel 1997 è entrata a far parte del team di meteorologi di Meteo Expert. Fino al 2012, all’attività operativa ha affiancato attività di ricerca, occupandosi dell’analisi della performance dei modelli di previsione. Attualmente si dedica a quest’ultima attività, ampliata implementando un metodo di valutazione dell’abilità dei modelli a prevedere dodici configurazioni della circolazione atmosferica sull’Italia, identificate per mezzo di una rete neurale artificiale.

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