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Parlami di resilienza senza parlarmi di resilienza

Le sfide di Venezia sono le sfide del Mondo. Serve un pensiero resiliente che vada al di là di un aggettivo molto in voga nelle amministrazioni di successo

In pieno Medioevo, per fuggire dai barbari invasori, i veneziani costruirono una città sull’acqua e con essa costruirono la loro libertà. 

La prima isola abitata, leggermente più alta delle altre, fu rivus altus, oggi conosciuta come Rialto, il cui ponte è tra le attrazioni turistiche di fama mondiale. Il turismo a Venezia, accolto e demonizzato, è la linfa economica che nell’anno della pandemia ha smesso di scorrere. Dalla fine del XX secolo la città si presenta come quella che gli economisti descrivono come monocoltura del turismo”, termine che, come in agricoltura, indica qualcosa di redditizio ma insostenibile.

Nel 1422 Venezia contava 199.000 abitanti, nell’anno della fine della Serenissima Repubblica (1797) circa 141.000. Nel 1926, quando Venezia e Mestre vennero unite, la città sulla laguna contava 175 mila residenti. Nel 2008 la farmacia Morelli in campo San Bortolomio ha esposto un contatore riportante il numero degli abitanti ufficiali del centro storico di Venezia, “un monito contro il noto esodo dei veneziani dalla loro Città”. Il 10 marzo 2008, giorno dell’inaugurazione del cronometro, la scritta luminosa mostrava la cifra: 60.720.

Oggi, 1 giugno 2021, il contatore della vetrina della farmacia Morelli a Rialto, è sceso sotto i 60 mila. (50.992). Da anni la speculazione immobiliare ha provocato una migrazione dei veneziani verso la terraferma, ma la desertificazione sociale portata dalla pandemia, ha dimostrato l’egoismo della monocoltura del turismo.

Il peso di questo egoismo si legge negli occhi di Mauro Zennaro, artigiano del vetro dal 1986 produttore e creatore di perlesiamo scesi di nuovo sotto ai 60 mila”, racconta provato ma con quella luce che lega da sempre i veneziani, “qui ci conosciamo tutti, qui se uno non lavora, si ferma anche tutto il resto. Si è venduto poco, non so se riuscirò a rifare il bagno e far lavorare anche gli operai, idraulici eccetera. Probabilmente rinuncerò a qualcosa e lo farò lo stesso, così pian piano, ricominceremo a lavorare tutti”. Quella luce è il valore della collettività proprio di una comunità forte e coraggiosa.

Le botteghe artigiane dei mastri vetrai sono il simbolo della resistenza veneziana alla velocità e alla superficialità del mondo moderno. 

Per forgiare una perla in vetro seguendo la più antica lavorazione, quella del “vetro a lume”, il Maestro vetraio usa una fiamma a gas che raggiunge una temperatura costante molto elevata. Questa è la più difficile delle tecniche: non concede sconti di temperatura e di tempo, si tramanda in bottega attraverso il duro lavoro da centinaia di anni. Ma una perla forgiata in questo modo la si riconosce tra mille: se cade, non si infrange ma rimbalza. 

“Venezia ne ha passate tante, la peste, l’acqua alta, va così ma ci si rialza. Questa volta è difficile”.

Nel Trecento Venezia fu travolta da una epidemia di peste. La peste arrivò a Costantinopoli nel 1.347 trasportata via terra dai commercianti provenienti dall’Asia e i mercanti italiani provenienti dai porti del Mar Nero hanno inconsapevolmente diffuso la malattia nel bacino del Mediterraneo. Venezia, snodo di molte rotte commerciali verso l’Europa centrale, divenne l’epicentro dell’epidemia in Europa. Le pratiche inizialmente adottate dai veneziani per individuare le probabili cause della peste e gli interventi per ridurne la vulnerabilità si rivelarono inutili perché senza una corretta comprensione della minaccia, la gestione del rischio è inefficace. 

La gestione del rischio è un metodo utile per mitigare i danni provenienti da un insieme noto di minacce, ma quando la possibile minaccia o meccanismo di minaccia è sconosciuto o percepito in modo errato, la valutazione del rischio è impossibile e la gestione del rischio è inutile.

Nonostante ciò, Venezia è sopravvissuta alle epidemie di peste grazie a una comprensione intuitiva da parte dei funzionari statali che, nonostante il rapido progresso della malattia, ne tracciarono la diffusione creando dei veri e propri itinerari del possibile contagio (dai porti, alle merci, ai passaggi attraverso la città). Sulla base di questa comprensione generale, i funzionari hanno imposto misure fisiche e sociali, introducendo i concetti di lazzaretto (l’isolamento nello spazio) e quarantena (isolamento nel tempo). Per combattere la peste, gli ufficiali fermavano le navi in ​​arrivo nelle isole esterne mentre valutavano la salute dei viaggiatori, ispezionavano le navi e disinfettavano gli articoli in tessuto con l’aceto. Mentre la peste dilagava in tutta Europa i veneziani si ingegnavano per incrementare queste misure che oggi definiremmo di contenimento del contagio. I medici ridussero il contatto con i malati indossando lunghi cappotti e guanti, servendosi di un bastone per esaminare i pazienti. Nei secoli successivi, deducendo che non solo il contatto fisico tra individui malati e sani, ma anche il contatto con l’aria viziata che circondava i malati contribuì alla diffusione della malattia, i medici iniziarono a indossare maschere a becco lungo contenenti aceto o erbe aromatiche nel tentativo di purificare l’aria che respiravano.

Le misure veneziane, adottate senza alcuna comprensione e conoscenza della malattia, hanno cambiato il dominio fisico alterando il movimento di persone e merci, il dominio sociale alterando la natura delle interazioni tra malati e sani, hanno cambiato il dominio informativo monitorando la diffusione della malattia. Questi elementi hanno a loro volta modificato il dominio cognitivo, ovvero la predisposizione dei cittadini ad accogliere nuove regole e agire insieme per attraversare e sopravvivere ad una minaccia. All’interno di questo insieme di cambiamenti interconnessi del sistema, l’azione e lo sforzo collettivo hanno permesso alla città di Venezia di mantenere le proprie funzioni e di attraversare l’epidemia di peste.

Un’altra grande sfida della città di Venezia è il fenomeno dell’acqua alta, del quale vi sono riferimenti anche prima che il fenomeno venisse studiato e annotato con rigore scientifico. Il primo documento attribuito all’acqua alta risale al 589: «non in terra neque in aqua sumus viventes», scriveva Paolo Diacono nella sua “Historia Langobardorum”, ossia «non viviamo né sull’acqua né sulla Terra». Tre altre testimonianze di questo evento ci arrivano da documenti risalenti tra il 782 e l’885: «L’acqua inondò tutta la città, penetrò nelle chiese e nelle case». Successivamente si hanno altre testimonianze nel 1240, 1341. Se ne contano 6 nel corso del XV secolo e altrettante nel XVI secolo. Venezia da sempre fa i conti con maree eccezionali.

Come risulta da uno studio, tra il 1250 e il 1300 se ne sono verificate 6; nel periodo 1400-1450 se ne sono verificate 11; nel periodo 1500-1550 se ne contano 7; nel periodo 1700-1750 se ne contano 9. Il primo mareografo venne collocato nel 1906 sul lato Canal Grande ma poi venne spostato nel 1923 sul lato del Canale della Giudecca, sito dell’attuale collocazione. Il punto di riferimento per il centro storico è la stazione di Punta della Salute a Venezia, operante fin dal 1923 e tutt’ora in esercizio. Tutte le misurazioni della marea hanno come riferimento il livello medio del mare tra il 1885 e il 1909, prendendo come anno centrale il 1897, calcolato dall’Istituto Geografico Militare. Dal 1924 ad oggi episodi di alta marea con picco oltre i 110 cm sono diventati più frequenti: tra il 2000 e il 2005 si sono verificati 29 episodi; tra il 1950 e il 1954 solo 6. L’aumento della frequenza di maree eccezionali può essere collegato al cambiamento climatico.

Venezia è una delle città del mondo le cui proiezioni legate al cambiamento climatico tracciano gli scenari peggiori. Uno degli effetti più catastrofici del riscaldamento globale è l’innalzamento del livello di mari e oceani: se il livello dei mari si alzasse di 1 metro Venezia sarebbe la prima a finire sott’acqua e a subire un aumento degli eventi meteo estremi. 

Le sfide di Venezia sono le sfide del Mondo. Serve un pensiero resiliente che vada al di là di un aggettivo molto in voga nelle amministrazioni di successo. Un pensiero resiliente rispecchia i valori delle comunità che sono nate e si sono sviluppate intorno alle persone che le compongono, alle tradizioni, alla cultura e alla bellezza che rende ogni luogo – con i suoi abitanti – unico al Mondo.

Foto credit: IconaClima

Elisabetta Ruffolo

Elisabetta Ruffolo (Milano, 1989) Laureata in Public Management presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università degli studi di Milano. Head of communication di MeteoExpert, Produttrice Tv per Meteo.it, giornalista e caporedattrice di IconaClima. Ha frequentato l’Alta scuola per l’Ambiente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore per il Master in Comunicazione e gestione della sostenibilità.

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