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Il riscaldamento globale provocherà l’aumento dell’attività vulcanica? Gli indizi conservati negli archivi naturali della Terra

L’ innalzamento della temperatura avvenuto alla fine dell’ultimo periodo glaciale provocò, dopo diversi secoli, un notevole aumento della frequenza e dell’intensità delle eruzioni vulcaniche nelle regioni in fase di deglaciazione. Migliaia di anni dopo, una diminuzione relativamente lieve della temperatura inibì l’attività vulcanica dell’Islanda. Cosa dobbiamo aspettarci per il futuro?

Vulcani e clima sono interconnessi più di quanto si possa pensare.
È noto che le eruzioni vulcaniche esplosive possono influenzare il clima direttamente: l’immissione di aerosol e di particelle fini di cenere nella stratosfera può provocare il raffreddamento della superficie su scala regionale e globale, come avvenuto, ad esempio, con l’eruzione del Pinatubo nel 1991.
Meno nota è la relazione inversa: seppur con tempi di risposta plurisecolari, le variazioni della temperatura globale possono influenzare indirettamente la frequenza delle eruzioni vulcaniche. Come? Attraverso la glaciazione e la deglaciazione.

A seguito dell’innalzamento della temperatura, ad esempio, la fusione dei ghiacci presenti nelle regioni vulcanicamente attive può provocare un aumento della frequenza e dell’intensità delle eruzioni, e ciò può accadere anche in risposta ad una regressione glaciale abbastanza modesta, conseguenza di un incremento relativamente lieve della temperatura. La diminuzione del volume di ghiaccio, quindi del suo peso sulla superficie terrestre, favorisce infatti, per decompressione, la fusione parziale delle rocce del mantello, quindi l’aumento della produzione di magma in profondità e la sua risalita verso la superficie, aumentando così la probabilità di eruzione.

Mediante l’analisi di carote di ghiaccio e di sedimenti marini, lacustri e di torbiera, diversi ricercatori sono riusciti a trovare le prove di tale relazione nel lontano passato: un campanello d’allarme su ciò che potrebbe accadere in futuro in diverse parti del Mondo per effetto del cambiamento climatico antropogenico, provocato cioè dalle attività umane.

 

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L’aumento dell’attività vulcanica globale alla fine del periodo glaciale rivelata dai ghiacci dell’Antartide e della Groenlandia

Analizzando le deposizioni di solfati e zolfo conservate all’interno di tre carote di ghiaccio estratte dalla calotta glaciale antartica, e tre prelevate dai ghiacci artici della Groenlandia, i ricercatori della sezione di Fisica del Ghiaccio, del Clima e della Terra dell’Istituto Niels Bohr dell’Università di Copenaghen sono riusciti a stimare l’intensità, la frequenza e la forzante climatica delle grandi eruzioni vulcaniche avvenute tra 60.000 e 9.000 anni fa, cioè tra la fine dell’ultimo periodo glaciale e l’inizio dell’Olocene, il periodo caldo attuale iniziato 11.700 anni fa. I risultati dello studio sono stati pubblicati nel 2022 sulla rivista scientifica Climate of the Past.

Per gran parte dell’intervallo di tempo studiato, le carote di ghiaccio sono risultate sincronizzate, rendendo possibile distinguere le grandi eruzioni con una distribuzione globale di solfati dalle eruzioni rilevabili in un solo emisfero. Nei 51.000 anni considerati, il ghiaccio della Groenlandia ha registrato 1113 eruzioni, mentre il ghiaccio antartico ha permesso di rilevarne 737; 85 di queste eruzioni hanno lasciato traccia in entrambi i poli (eruzioni bipolari). Venticinque delle grandi eruzioni bipolari furono più imponenti di qualsiasi eruzione vulcanica mai avvenuta negli ultimi 2500 anni, e si stima che ben 69 eruzioni abbiano avuto intensità di emissione di zolfo maggiori rispetto alla devastante eruzione del vulcano Tambora, in Indonesia, avvenuta nel 1815.

Tra 16.000 e 9.000 anni fa si verificò un notevole aumento della frequenza e dell’intensità delle eruzioni dei vulcani registrate dai ghiacci della Groenlandia, ma non dai ghiacci dell’Antartide.
Lo studio dimostra che l’aumentata attività vulcanica durante quei 7000 anni e in quella parte della Terra è correlata alla perdita degli enormi volumi di ghiaccio avvenuta nell’emisfero settentrionale durante il periodo della grande deglaciazione.

Numero di eruzioni vulcaniche per millennio rilevate nelle carote di ghiaccio (a) dell’Antartide e (b) della Groenlandia, raggruppate per diversi periodi climatici (esempio: G = periodo glaciale tra 60 mila e 21 mila anni fa) e per classi di “intensità di eruzione” (esempio: blu = bassa, giallo = elevata) definite in base alla distribuzione dei depositi di solfato. Crediti https://doi.org/10.5194/cp-18-485-2022

Alle stesse conclusioni erano giunti diversi studi precedenti. Una valutazione della documentazione storica delle eruzioni vulcaniche effettuata una quindicina di anni fa dall’Università di Harvard ha mostrato, ad esempio, che durante l’ultima grande deglaciazione l’attività vulcanica aumentò globalmente da due a sei volte rispetto alla media degli ultimi 40.000 anni, e che l’aumento del vulcanismo si verificò solo nelle regioni in fase di deglaciazione. l risultati di questo studio sono stati pubblicati nel 2009 su Earth and Planetary Science Letters.
Alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, analizzando i solfati vulcanici contenuti in una carota di ghiaccio proveniente dalla Groenlandia, anche alcuni ricercatori dell’Università del New Hampshire hanno rilevato un’intensificazione dell’attività vulcanica tra 20.000 e 8.000 anni fa, interpretata come risposta allo sbilanciamento della crosta terrestre dovuto alla fusione delle calotte continentali e all’innalzamento del livello del mare avvenuti alla fine del periodo glaciale. I risultati completi dello studio sono stati pubblicati sulla riviste scientifiche Quaternary Research e Journal of Geophysical Research.

L’attività vulcanica in Islanda in risposta alla grande deglaciazione di 12 mila anni fa

Le grandi eruzioni dei vulcani avvenute nell’emisfero settentrionale durante il periodo deglaciale furono soprattutto di origine islandese. Il materiale piroclastico (cenere, lapilli e bombe) eruttato ai quei tempi e rinvenuto in diversi luoghi del nostro emisfero proviene infatti solo in piccola parte dal Giappone, dall’Alaska o da luoghi sconosciuti, e in larga parte dall’isola vulcanica più grande del Pianeta.

La diffusa attività vulcanica dell’Islanda è dovuta allo stesso fenomeno che l’ha generata milioni di anni fa:  è situata sulla verticale di un “punto caldo”, un punto di risalita di magma dal mantello, posizionato in corrispondenza della dorsale medio-atlantica, la catena montuosa sottomarina che dal Polo Nord fino quasi all’Antartide corre al centro dell’oceano, lungo la linea di divergenza tra le zolle delle Americhe e quelle dell’Eurasia e dell’Africa.

L’Islanda è il più vasto dei pochi punti emersi della dorsale e, dopo la piccola isola norvegese di Jan Mayen, è anche il più settentrionale: qui, fuoco e ghiaccio convivono da decine di migliaia di anni. L’ultima grande deglaciazione dell’Islanda ebbe luogo tra 15 e 10 mila anni fa, quando la calotta glaciale si ritirò dall’esterno dell’attuale linea costiera fino a raggiungere all’incirca le dimensioni di vent’anni fa, per poi regredire in modo drammatico nell’ultimo ventennio.
I tassi medi di eruzione vulcanica dopo la fine dell’ultimo periodo glaciale, circa 12 mila anni fa, furono fino a cento volte superiori a quelli del periodo glaciale e degli ultimi 5000 anni. Il picco di attività vulcanica terminò meno di 2 mila anni dopo la fine della grande deglaciazione.

 

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L’attività vulcanica in Islanda in risposta alla lieve avanzata glaciale di 5000 anni fa.

Può sorprendere, e al contempo un po’ allarmare, scoprire che anche variazioni relativamente lievi della temperatura e dell’estensione glaciale possono influenzare la frequenza delle eruzioni vulcaniche.
A presentare le prove empiriche che ciò avvenne in Islanda circa 6000 anni dopo la fine della grande deglaciazione, quindi a metà del “caldo” Olocene, è uno studio inglese pubblicato nel 2018 sulla rivista scientifica Geology.

Gli studiosi hanno misurato la frequenza delle eruzioni islandesi avvenute all’epoca mediante l’analisi dei depositi di cenere vulcanica rinvenuti in diversi siti del nord Europa. L’hanno poi correlata al contenuto di ioni di sodio (Na+) trovati in una carota di ghiaccio proveniente dalla Groenlandia, un indicatore utilizzato per ricostruire la circolazione atmosferica.

A: Mappa del nord Europa con indicati i siti di ritrovamento dei depositi di cenere vulcanica risalente all’Olocene. B: Mappa dell’Islanda con indicati i vulcani attivi durante l’Olocene (triangoli) e la distribuzione delle grandi masse glaciali (aree azzurre). Crediti https://doi.org/10.1130/G39633.1

È stato così identificato un periodo di attività vulcanica marcatamente ridotta tra 5500 e 4500 anni fa, preceduto da un periodo di rapido raffreddamento dell’Oceano Atlantico e importante approfondimento del Ciclone d’Islanda: condizioni che favorirono una avanzata glaciale sull’Isola. Tra l’evento climatico e il cambiamento della frequenza delle eruzioni da esso innescato gli scienziati hanno calcolato un intervallo di tempo di circa 600 anni.

I tempi di risposta potrebbero essere però molto più brevi nel caso si verificasse un aumento di pari entità della temperatura e della conseguente deglaciazione. È quanto sostiene il primo autore della pubblicazione, spiegando che «ci vuole meno tempo per fondere il ghiaccio se la temperatura sale, rispetto al tempo necessario a far accumulare il ghiaccio quando il clima diventa più freddo».

Il riscaldamento globale di oggi potrebbe provocare eruzioni vulcaniche più frequenti e intense domani: il possibile scenario futuro in Europa

Visto il ritardo plurisecolare della risposta a una variazione climatica anche relativamente contenuta, l’intensificazione dell’attività vulcanica dovuta alla deglaciazione attualmente in corso – iniziata alla fine della Piccola Era Glaciale (circa nel 1850) e fortemente accentuata negli ultimi decenni per intervento antropico – potrebbe diventare evidente nella seconda metà del nostro millennio nelle aree in cui ghiacciai e vulcani interagiscono, come il nord ovest degli Stati Uniti, il Sud America meridionale, l’Antartide e, come abbiamo visto, il nord Europa.

Un aumento significativo dell’attività vulcanica in Islanda comporterebbe nubi di cenere più frequenti su vaste porzioni dell’Europa e più frequenti interruzioni del trasporto aereo, con relativi danni economici per l’industria dell’aviazione e non solo, potrebbe provocare un peggioramento della qualità dell’aria a causa del particolato e delle emissioni di diversi gas, come l’anidride solforosa, e potrebbe rappresentare un potenziale rischio per la salute di molte persone e per l’ambiente.

Eruzione del vulcano islandese Eyjafjöll nella primavera del 2010. La nube di cenere sprigionata durante l’eruzione provocò gravi problemi alla navigazione aerea in gran parte dell’Europa. Crediti Wikipedia.

Un altro buon motivo, tra i tanti, per cercare di contrastare il riscaldamento globale con tutti i mezzi possibili.

Laura Bertolani

Laureata in Scienze Naturali, nel 1997 è entrata a far parte del team di meteorologi di Meteo Expert. Fino al 2012, all’attività operativa ha affiancato attività di ricerca, occupandosi dell’analisi della performance dei modelli di previsione. Attualmente si dedica a quest’ultima attività, ampliata implementando un metodo di valutazione dell’abilità dei modelli a prevedere dodici configurazioni della circolazione atmosferica sull’Italia, identificate per mezzo di una rete neurale artificiale.

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