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Genere, clima e sviluppo: questioni interconnesse

In questo cruciale momento d'azione per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile, un approccio inclusivo è l'unica via per affrontare la crisi climatica senza lasciare indietro nessuno

Gli impatti sociali ed economici causati dalla pandemia COVID-19 hanno portato alla luce il modo in cui la diseguaglianza modella il modo di affrontare la crisi e le aspettative di resilienza e ripresa. Nei paesi fragili e colpiti da conflitti, la pandemia si è dimostrata essere una crisi sulle crisi: instabilità politica, violenza e condizioni di precarietà e povertà si sono acuite, in contesti in cui il cambiamento climatico sta già mettendo a rischio la sopravvivenza delle popolazioni.

Il cambiamento climatico è un moltiplicatore di minacce e rischia di invertire i progressi di sviluppo sociale conquistati duramente nel corso dei secoli. Un aspetto ancora non sufficientemente considerato nell’analisi e nelle risposte alle crisi è quello delle norme di genere, le crisi di fatto alimentano conflitti e insicurezze e aumentano le distanze sociali e di genere.

Già nel rapporto del 2019, il segretario generale delle Nazioni Unite aveva dichiarato l’urgente necessità di una migliore analisi dei legami tra cambiamento climatico e conflitti di genere. Per l’edizione 2020, le Nazioni Unite, hanno condotto uno studio il cui rapporto conclusivo evidenzia come i rischi legati alla crisi climatica colpiscano in modo sproporzionato, rispetto al resto della popolazione, le donne di ogni età. Le donne vengono penalizzate soprattutto in quelle società nelle quali, pur essendo le principali procacciatrici di cibo, acqua ed energia, hanno meno risorse economiche con cui adattarsi alle mutevoli condizioni ambientali.

Il rapporto vuole dimostrare come genere, clima e sicurezza siano indissolubilmente legati, sottolineando come esistano modi concreti per trarre vantaggio da questo triplice legame per prevenire i conflitti e favorire situazioni di pace. Un aspetto rilevante riguarda la gestione consapevole ed integrata: il mutamento delle convenzioni sociali dovuto all’emergere di nuovi bisogni, può creare punti di accesso all’emancipazione economica delle donne, nonché alla loro partecipazione al processo decisionale.

In Sudan, il risultato di conflitti, le ondate di siccità estreme e i processi decisionali esclusivi, hanno costretto alcune comunità di pastori a cambiare i loro modelli migratori, lasciando spesso le donne da sole nei villaggi a gestire le famiglie, mentre gli uomini si dedicano alla ricerca di terre da pascolo. In assenza di uomini, le donne hanno assunto nuove responsabilità. Nello stato del Kordofan, l’allevamento di bestiame è stato a lungo l’unico mezzo di sostentamento, consentendo alle comunità nomadi di adattarsi alle difficili condizioni climatiche. Le condizioni climatiche di questa zona si caratterizzano per lunghi e intensi periodi di siccità e, negli ultimi anni, proprio l’inasprirsi di queste condizioni ha spinto le popolazioni alla ricerca di nuove terre da pascolo. Si osservano due tendenze di risposta alla crisi climatica: la prima è la riduzione degli spostamenti, la seconda, vede l’adattamento delle rotte migratorie alle condizioni climatiche. In questo secondo caso, per far fronte alle insidie ambientali e di sicurezza (quest’area è considerata una delle più insicure del paese), sono gli uomini ad andare in cerca di nuove terre per i pascoli, mentre le donne restano nei villaggi; la presenza più stabile nei villaggi delle donne, ha mutato la struttura sociale, assegnando alle donne le responsabilità di protezione e mantenimento economico della comunità. Allo stesso tempo, la ricerca sottolinea come riconoscere esperienze differenziate può aiutare a minimizzare i rischi legati alla sicurezza e identificare opportunità per costruire e sostenere una pace più inclusiva. E’ stato osservato che, uno stile di vita più stabile, permette interazioni più frequenti e la costruzione di relazioni tra donne provenienti da comunità legate alla pastorizia e all’agricoltura differenti, la creazione di luoghi di scambio (come i mercati) o di confronto e assistenza (come i centri sanitari), creando così nuove opportunità per rafforzare la coesione sociale tra gruppi.

Altro caso preso in esame nel rapporto delle Nazioni Unite, è quello della Sierra Leone, in particolare la zona di Freetown. Freewtown è una città situata tra le montagne e la costa atlantica, il cui intervento umano ha fortemente provato l’habitat naturale. La rapida urbanizzazione, combinata con una scarsa pianificazione urbana e una topografia avversa, ha portato all’espansione di insediamenti in pianure alluvionali e su ripide colline. La zona è stata oggetto anche di una deforestazione incontrollata e da un accumulo di rifiuti solidi che hanno ridotto significativamente la capacità di assorbimento delle piogge da parte del terreno impermeabilizzato, con conseguente intensificazione di fenomeni quali alluvioni e frane. 

La parte di popolazione che occupa questa zona vive in condizioni di povertà, di conseguenza ha minori risorse per affrontare eventi meteo climatici estremi e una maggiore scarsità di adattamento e resilienza alle crisi. Basti pensare alla situazione riguardante l’accesso alla rete idrica: circa il 95% della popolazione di Freetown non ha accesso all’acqua. L’intera città al di fuori del Central Business District è servita da fosse settiche e pozzi. Qui, come anticipato, vengono scaricati la maggior parte dei rifiuti solidi, sia nelle strade che nei fiumi, bloccando gli scarichi, i corsi d’acqua e aumentando il rischio di alluvione. L’assenza di un adeguato sistema di gestione dei rifiuti e la conseguente contaminazione delle acque ha causato problemi sia sanitari che ambientali. I costi sanitari associati a tali malattie trasmesse dall’acqua possono rappresentare più di un terzo del reddito delle famiglie povere.

Le donne sono ulteriormente svantaggiate a causa di norme discriminatorie e di scale di potere che limitano il loro accesso alle strutture sociali, economiche e politiche.
Nel 2019, le donne avevano in media meno di tre anni di scolarizzazione e detenevano solo il 12% dei seggi parlamentari.

Tuttavia, i risultati rivelano che, nonostante il divario di genere, le donne a Freetown stiano iniziando ad accedere a percorsi di inclusione nella governance locale portando avanti messaggi di contrasto alla crisi climatica e di protezione ambientale. 

In primo luogo, le donne hanno iniziato ad avere una rappresentanza formale nel governo della città, in particolare, nel 2018, Yvonne Aki-Sawyerr è diventata la prima donna eletta sindaco. I cambiamenti climatici e l’ambiente sono stati al centro del suo programma politico “Transform Freetown”. Il suo approccio alla governance si è basato sui dati e sulla partecipazione, il suo programma consisteva nello stabilire e misurare chiari obiettivi ambientali e nel tenere consultazioni regolari con i residenti della città, anche nelle zone particolarmente esposte a frane e alluvioni.

In secondo luogo, le donne si sono impegnate in organizzazioni comunitarie e nella costruzione di reti nella società civile. E’ nata la Federazione per i poveri urbani e rurali (FEDURP), una rete guidata da donne composta da oltre 3.000 persone. I gruppi formati dalla FEDURP assicurano alle famiglie sicurezza finanziaria e mobilitano l’attività della comunità. Una volta coinvolti in un gruppo, i membri della rete assumono altri compiti come la raccolta di dati nelle loro comunità – che aiuta a identificare gli utenti al rischio – o si occupano della formazione di membri della comunità sulla gestione delle inondazioni e dei disastri. FEDURP è diventato un partner importante nell’attuazione dell’agenda Transform Freetown, dimostrando il potere di una governance inclusiva.

Le donne che difendono i clima e la lotta alla crisi climatica sono spesso vittime di violenze in molti paesi.

Il Rapporto Onu evidenzia come proteggere le risorse naturali e difendere i diritti ambientali stia diventando sempre più pericoloso. Global Witness ha documentato 168 uccisioni di attivisti ambientali nel 2018 e 201 nel 2017, di cui circa il 10% erano donne. La vera portata del problema è difficile da stimare, ma il numero di coloro che hanno perso la vita è probabilmente maggiore di quello conosciuto.

Un’analisi delle donne che difendono la terra e l’ambiente fatta sempre da Global Witness rileva che le donne attiviste affrontano rischi specifici e unici, anche se la maggior parte degli omicidi riguardano uomini.
Nelle società patriarcali, le donne attiviste non difendono solo l’ambiente, ma il loro diritto di esprimersi. Poiché le donne sono spesso escluse dalla proprietà della terra, dalla governance delle risorse naturali e dai processi decisionali, ciò crea un contesto in cui la voce e la legittimità delle donne vengono messe in discussione a prescindere da ogni cosa. In alcuni contesti, le donne sono soggette a diffamazione.

Nel 2016, l’omicidio della famosa attivista ambientale Berta Cáceres in Honduras ha suscitato l’attenzione internazionale. Berta Cáceres, con l’associazione Copinh, aveva lanciato una campagna contro il progetto di costruzione di una diga per la produzione di energia idroelettrica. L‘attivista voleva fermare la costruzione di questa infrastruttura per evitare l’impatto ambientale e sociale che avrebbe avuto sul territorio del popolo Lenca. Portare all’attenzione dell’opinione pubblica le azioni di potenti imprese industriali contro le comunità locali di contadini e popoli nativi, le è costato la vita. Tuttavia, secondo Global Witness, l’uccisione di molte più attiviste donne passa in gran parte inosservata e non registrata.

Affrontare il genere, l’ambiente, la pace e lo sviluppo come questioni fondamentalmente interconnesse è uno degli obiettivi dell’ONU, il cui programma congiunto su donne, risorse naturali, clima e pace riconosce che gli interventi sulle risorse naturali, sull’ambiente e sui cambiamenti climatici offrono opportunità significative per riconoscere il ruolo politico ed economico delle donne e rafforzare il loro contributo nello sviluppo di un futuro sostenibile.

Elisabetta Ruffolo

Elisabetta Ruffolo (Milano, 1989) Laureata in Public Management presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università degli studi di Milano. Head of communication di MeteoExpert, Produttrice Tv per Meteo.it, giornalista e caporedattrice di IconaClima. Ha frequentato l’Alta scuola per l’Ambiente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore per il Master in Comunicazione e gestione della sostenibilità.

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