Clima

Smart-working e Coronavirus: la tecnologia ci può aiutare riducendo anche l’impatto ambientale

La tecnologia ben utilizzata – ovvero lo smart-working – potrebbe essere un’ottima strategia, non solo in caso di emergenza, ma anche per combattere i cambiamenti climatici

Lo smart-working o una videoconferenza al posto di un viaggio di lavoro permettono di utilizzare la tecnologia per ridurre notevolmente le proprie emissioni, climalteranti e inquinanti. Basti pensare a ciò che è accaduto in queste ultime settimane, ai tempi del Coronavirus: i livelli di PM10 nel Nord Italia sono rimasti ben inferiori alle soglie, fatto ormai eccezionale, e sul lungo periodo il PM10 uccide molto più del Covid-19 (perlomeno se impediamo che si diffonda indisturbato). Lo fa in modo subdolo: tumori al polmone, ictus e malattie respiratorie dovute allo smog causano 9 milioni di vittime l’anno.

Anche lo smart-working pesa sull’ambiente

Qual è però l’impatto ambientale dei mezzi che permettono lo smart-working? Non si tratta di una valutazione banale: non è sufficiente calcolare le emissioni di gas serra dovute alla produzione dell’energia utilizzata per ricaricare smartphone e portatile. È necessario, invece, tenere conto anche dell’impatto della loro produzione e dismissione: l’energia necessaria e le emissioni dovute all’assemblaggio, all’estrazione e alla fornitura della materia prima, allo smaltimento. Tutto ciò costituisce il carbon footprint del settore ICT (Information and Communications Technology).

Quanto inquina il tuo smartphone?

Un recente studio pubblicato sul Journal of Cleaner Production ha tenuto conto non solo del consumo energetico dovuto all’alimentazione degli apparecchi elettronici, ma anche dell’impatto della loro produzione. Ha cioè calcolato il carbon footprint di smartphone, pc, data center e reti: nel 2017 il settore ICT ha generato una percentuale compresa fra il 2.5 e il 3.1% delle emissioni totali mondiali di gas climalteranti. Ciò che più preoccupa è però la previsione di crescita di questo contributo, che potrebbe raggiungere il 14% nel 2040, cioè quasi la metà dell’apporto attuale dell’intero settore industriale negli Stati Uniti (29%). Tale aumento è da attribuire a una crescita relativa annua prevista del settore fra il 5.6% e il 6.9%.

Cosa puoi fare tu

Per contenere le emissioni dell’ICT, ognuno di noi può dare un piccolo, ma determinante contributo:

  • la migliore strategia è mantenere i propri apparecchi elettronici per il maggior tempo possibile (almeno 4 anni). Riguardo a ciò, non si può proprio dire che le grandi compagnie dell’informatica stiano dimostrando di avere una coscienza ambientale: il loro business è infatti in gran parte basato sull’obsolescenza precoce dei dispositivi che commercializzano. Data infatti la breve vita media degli smartphone, 2 anni, ben l’85-95% delle emissioni ad essi relative è dovuto alla loro produzione, che implica anche l’estrazione di minerali preziosi.
  • è anche utile utilizzare schermi più piccoli;
  • immagazzinare i propri dati sul cloud invece che su hardware personali;
  • ricaricare i propri apparecchi con elettricità da fonti rinnovabili.

Cosa possono fare le aziende

Un grande contributo alla riduzione delle emissioni dell’ICT potrebbe venire dalle aziende, in particolare dalla conversione delle fonti energetiche utilizzate per l’alimentazione dei data center in fonti energetiche rinnovabili. Secondo le previsioni per quest’anno (2020) dello studio citato, infatti, i data center sono responsabili del 45% delle emissioni dell’ICT. Per fortuna questo processo è già in atto. L’adozione di energia rinnovabile è infatti particolarmente facilitata dalla localizzazione spaziale delle strutture (concentrate in aree remote con grandi spazi disponibili per pannelli solari e pale eoliche) e dal sempre più ridotto costo dell’energia rinnovabile stessa. Il 42% dei partecipanti al sondaggio di AFCOM (Association For Computer Operations Management) del 2018 aveva già iniziato ad utilizzare o programmato di utilizzare energia rinnovabile per i propri data center. Dal 2017 Google, il più grande operatore di data center nel mondo, acquista una quantità di energia rinnovabile pari al proprio fabbisogno totale. Anche Facebook ha annunciato nel luglio 2017 che tutti i suoi nuovi data center sarebbero stati alimentati al 100% da energia rinnovabile.

ICT o aviazione, chi inquina di più?

È sempre bene, in ogni caso, legare le emissioni di un determinato settore alla sua utilità e confrontarle con quelle di altre attività. Un esempio è il paragone fra ICT e aviazione. Il carbon footprint dell’ICT, comprendente produzione e smaltimento dei dispositivi, nel 2015 è stato di 730 milioni di tonnellate di CO2 equivalente[1]. Per superare questa quota basta considerare il solo carburante utilizzato per i voli (800 milioni di tonnellate di CO2 equivalente), a cui andrebbero sommate le emissioni per costruzione, mantenimento e dismissione degli aerei, per le operazioni a terra e l’effetto negativo legato all’emissione a 10 km di altitudine. La quota dell’ICT tiene invece conto anche della costruzione degli edifici del settore e degli spostamenti dei lavoratori. Questo significa che, se fossero disponibili dati più completi per l’aviazione, molto probabilmente il paragone sarebbe radicalmente più sbilanciato. Gli apparecchi informatici, inoltre, sono utilizzati dal 70% della popolazione mondiale, mentre ha accesso ai trasporti aerei solo il 10%, con l’1% soltanto di viaggiatori abituali. L’impatto pro capite dell’ICT è cioè molto minore di quello dell’aviazione: le emissioni legate all’utilizzo di uno smartphone per 50 anni (inclusa la produzione, con una vita media di 2 anni) sono pari a quelle di un viaggio andata e ritorno per la costa orientale degli Stati Uniti (incluso solo il carburante). Non per niente Greta e il resto del popolo svedese ha ormai sviluppato una certa vergogna di viaggiare in aereo.

Se dobbiamo scegliere, meglio rinunciare a un volo piuttosto che a un nuovo smartphone.

Tecnologia: un’arma da usare con responsabilità

In realtà, l’impatto del settore ICT non si riduce affatto al carbon footprint: è essenziale anche considerare l’utilizzo che viene fatto della tecnologia, ad esempio appunto lo smart-working, o l’impatto su preferenze e comportamenti, come la diffusione dell’e-commerce.

L’impatto che abitudini e comportamenti derivati dalla tecnologia hanno è probabilmente molto maggiore di quello legato a produzione, smaltimento e alimentazione degli apparecchi in sé. In altre parole, l’effetto sociale dell’ICT potrebbe avere un’importanza maggiore del suo carbon footprint: è essenziale fare della tecnologia un utilizzo responsabile.

Ad esempio, mentre lo smart-working riduce le emissioni, l’utilizzo indiscriminato dell’e-commerce potrebbe costituire una notevole fonte di gas serra e inquinanti. Per fare un altro esempio, un pendolare che utilizza il tempo risparmiato con lo smart-working per fare una gita con un SUV farebbe meglio ad andare in ufficio, magari coi mezzi pubblici. Un comportamento irresponsabile, nei confronti dell’ambiente e della salute, proprio come chi in questi giorni ha affollato le piste da sci, dimostrando assoluta immaturità, oltre che incapacità di comprendere l’utilità e l’importanza delle misure prese per tutelarci. L’irresponsabilità resta la stessa indipendentemente dall’emergenza considerata, cambiamento climatico o Covid-19.

Insomma, l’ICT ha grandi potenziali, nel bene e nel male. Potenziali di gran lunga maggiori del suo footprint diretto. Le stime indicano che potrebbe contribuire alla riduzione delle emissioni globali di carbonio anche per il 15% entro il 2030, cioè ben un terzo dell’obiettivo di dimezzamento delle stesse entro il decennio. Alla società la responsabilità di utilizzare la tecnologia in modo virtuoso, non solo ai tempi del Coronavirus.

[1] Permette di esprimere l’effetto serra prodotto da ogni gas serra in riferimento all’effetto serra prodotto dalla CO2, considerato pari a 1 (ad esempio, il metano ha un contributo all’effetto serra 25 volte superiore rispetto alla CO2: per questo una tonnellata di metano viene contabilizzata come 25 tonnellate di CO2 equivalente).

Elisa Terenghi

Nata a Monza nel 1994, mi sono laureata in Fisica del Sistema Terra presso l’Università di Bologna nel marzo 2019, conseguendo anche l’Attestato di formazione di base di Meteorologo del WMO. Durante la tesi magistrale e un successivo periodo come ricercatrice, mi sono dedicata all’analisi dei meccanismi di fusione dei ghiacciai groenlandesi che interagiscono con l’oceano alla testa dei fiordi. Sono poi approdata a Meteo Expert, dove ho l’occasione di approfondire il rapporto fra il cambiamento climatico e la società, occupandomi di rischio climatico per le aziende.

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