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Decrescere? Seconda parte

Se le emissioni di gas clima alternati sono calate in corrispondenza di una crisi economica, dobbiamo augurarcene un'altra? Non è proprio così

Nell’articolo di premessa (Decrescere?) sono state brevemente esaminate alcune evidenze importanti, almeno a giudizio di chi scrive, che ci hanno condotto quasi inevitabilmente verso il tema della decrescita. Il principale di questi argomenti, lo ricordo, è costituito da un dato incontestabile: le emissioni globali di gas clima alteranti negli ultimi decenni sono calate solo in corrispondenza di una grave crisi economica. Ma come – penserà il lettore – dobbiamo forse desiderare una crisi economica per sperare di mitigare il riscaldamento globale? Vedremo che forse non è proprio così: in questo breve articolo proverò a chiarire il mio pensiero nella speranza, soprattutto, di offrire qualche utile spunto di riflessione.

La necessità della crescita economica, al di fuori di una piccola cerchia di economisti eretici, è un dogma pressoché indiscusso; la crescita è al centro di ogni programma politico che si rispetti e chiunque provi a sollevare qualche dubbio viene prontamente zittito da un coro di indignazione e allontanato dai “giri” che contano. Esistono infatti ottimi motivi per desiderare la crescita: alcuni di questi probabilmente affondano nel nostro antico passato evolutivo, altri, più semplicemente, in quello recente, i tempi dei nostri nonni o bisnonni nei quali la scarsità era la regola e l’abbondanza l’eccezione. Per sostenere una popolazione in aumento occorre naturalmente produrre più ricchezza, tuttavia nel nostro sistema economico la crescita appare indispensabile anche nella situazione in cui la popolazione è stazionaria. Non si tratta solo di avidità, le cause sono l’aumento continuo della produttività ed il ricorso all’automazione, che fanno sì che siano richieste sempre meno ore di lavoro per unità di prodotto. E’ quest’ultima, la necessità di conservare o aumentare il numero di posti di lavoro, la ragione più forte per cui i fautori della crescita hanno gioco facile e restano (quasi) senza oppositori.

Tutto bene dunque? Naturalmente no, malissimo! E se state leggendo questo articolo probabilmente intuite il motivo: il meccanismo economico che abbiamo creato, incardinato sulla crescita, è una trappola, una vera e propria bomba a orologeria, anche se forse non esploderà con un unico immenso botto. Per semplicità continuiamo a supporre di non avere un problema demografico (che invece, ahi noi, esiste ed è enorme) e di vivere su un pianeta con una popolazione umana stazionaria. Abbiamo appena osservato che a causa dei continui miglioramenti tecnologici dobbiamo accrescere ogni giorno la quantità di merci prodotte e scambiate per poter creare nuovi posti di lavoro in grado di sostituire le mansioni desuete che vengono progressivamente abbandonate. Il risultato è la società di consumi che conosciamo e di cui siamo parte, una società dove i suoi membri, prima ancora che cittadini, sono consumatori. Va da sé: per potere assorbire una produzione crescente di merci o servizi è indispensabile creare e indurre continuamente nuovi bisogni (per questo paghiamo un esercito di pubblicitari e di esperti di marketing ) ovvero aumentare il ritmo con cui acquistiamo lo stesso prodotto, magari ricorrendo all’obsolescenza programmata, con il conseguente aumento esponenziale degli scarti. Nascono in questo modo gli innumerevoli e giganteschi problemi che sempre più spesso fanno capolino sulle prime pagine dei mezzi di informazione: ad esempio discariche che non hanno più spazi per accogliere altri rifiuti, rifiuti che finiscono nell’ambiente, il bisogno di nuovi impianti per lo smaltimento, la necessità di nuove o più grandi miniere per estrarre gli elementi che servono all’industria, il consumo di suolo per espandere gli spazi produttivi, il consumo di suolo per nuove strade e ferrovie su cui far viaggiare le merci, per ampliare i porti … e, naturalmente, la crescente domanda di energia, che fa funzionare tutto quanto. L’energia che alimenta il sistema economico è ancora oggi ottenuta in gran parte bruciando combustibili fossili, risorse esauribili e in esaurimento, inquinanti e (occorre ribadirlo?) clima alteranti. L’economia mondiale, in fin dei conti, alle soglie del 2020 resta una macchina a petrolio, i cui derivati forniscono energia ai trattori che lavorano i campi, alle scavatrici che estraggono minerali dalle viscere della terra, ai camion, alle immense navi da trasporto, all’industria dell’acciaio, eccetera.

In questo sistema fortemente interconnesso, simile ad un organismo vivente, è impossibile individuare un organo più importante degli altri, il cuore è ugualmente vitale dei polmoni, dei reni o del fegato: senza uno di essi l’organismo cessa di vivere. Anche l’economia funziona grazie alla mutua collaborazione di tutti gli attori, ma probabilmente il petrolio, prima ancora del carbone, vi gioca un ruolo di primo piano, c’è perfino chi lo ha paragonato ad una droga. Un litro di benzina, per fare un esempio, contiene circa 10 kWh di energia, una formidabile densità energetica che rende i liquidi o i gas derivati dal petrolio estremamente versatili, fortemente competitivi rispetto alle altre fonti e difficilmente rimpiazzabili.
Lasciamo questa breve digressione sul petrolio e riprendiamo il filo del ragionamento iniziale per arrivare a una sintesi. Dopo avere cercato di capire le ragioni per cui la crescita sembra indispensabile nella società e nell’economia in cui viviamo ne abbiamo anche facilmente individuato i limiti. Incidentalmente, come probabilmente molti di voi sanno, nel saggio apparso agli inizi degli anni ‘70 “I limiti dello sviluppo” (infelice traduzione italiana del testo originale “The Limits to Growth”*) questi aspetti furono ben compresi dagli autori già cinquanta anni fa. Sono almeno cinquanta anni, insomma, che abbiamo la consapevolezza di vivere in un pianeta dalle risorse finite, che non disponiamo di infiniti spazi (tra terra, mari e atmosfera) per gettare i nostri scarti, né di terreni infiniti per espandere le infrastrutture, le coltivazioni e gli allevamenti, né di oceani infinitamente pescosi.
Dopo decenni di spensierata e irresponsabile rimozione oggi, tardivamente, questa consapevolezza, inizia a emergere. Probabilmente non siamo diventati più saggi, ma, come scrisse qualcuno, non essendoci occupati a suo tempo dei problemi, perché i problemi iniziano a occuparsi di noi: il cambiamento climatico inizia a presentare il conto (e non siamo nemmeno all’antipasto), spiagge e fiumi soffocano sotto strati di plastica, e via dicendo.
Come se ne esce? Sarà il tema del prossimo capitolo, dove proveremo, ovviamente senza alcuna pretesa di completezza e meno che mai di avere in mano verità e soluzioni definitive, ad avanzare qualche idea e a sollecitare altre riflessioni.

 

(*)Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows; Jørgen Randers; William W. Behrens III, The Limits to Growth, 1972. (traduzione italiana: Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows; Jørgen Randers; William W. Behrens III, I limiti dello sviluppo, 1972.)

Lorenzo Danieli

Sono nato a Como nel 1971 e ancora oggi risiedo nei pressi del capoluogo lariano. Dopo la maturità scientifica ho studiato fisica all’Università degli Studi di Milano, dove mi sono laureato con una tesi di fisica dell’atmosfera. La passione per la meteorologia è nata quando ero un ragazzino e si è trasformata successivamente nella mia professione. Con il tempo sono andati crescendo in me l’interesse per la natura e per tutte le tematiche legate all’ambiente, fra le quali le cause e le conseguenze del cambiamento climatico.

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