Il complesso ruolo delle nubi nel sistema climatico
Un nuovo studio suggerisce che l’effetto raffreddante della nuvolosità potrebbe essere sottostimato
Una nuova ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista Nature Climate Change suggerisce che i modelli climatici attuali potrebbero sottostimare il raffreddamento indotto dalla nuvolosità. Se questa osservazione dovesse essere confermata si tratterebbe, una volta tanto, di una notizia positiva: significherebbe infatti che la sensibilità climatica del nostro pianeta è un po’ meno elevata, vale a dire che, a parità di forzanti radiative (gas serra), il riscaldamento potrà risultare lievemente meno intenso.
Con riferimento alla nuova generazione di modelli climatici, appartenenti al Sixth Coupled Model Intercomparison Project (CMIP6) gli autori dello studio sottolineano che questi modelli prevedono un riscaldamento più veloce rispetto ai modelli precedenti (quelli della generazione CMIP5) proprio perché essi simulano un minore raffreddamento da parte della nuvolosità.
L’argomento è di grande interesse e fornisce lo spunto per approfondire alcuni aspetti estremamente importanti del funzionamento del sistema climatico e dei modelli che cercano di simularlo, con riferimento al ruolo della nuvolosità. Come sappiamo (si veda ad esempio questo approfondimento) la risposta del clima all’aumento della concentrazione dei gas serra è fortemente condizionata da alcuni meccanismi di retroazione (feedbacks) che amplificano la perturbazione iniziale indotta dai gas: tra i feedbacks più importanti citiamo quello dovuto al vapore acqueo (la sua concentrazione aumenta in un’atmosfera più calda, ma il vapore acqueo è esso stesso un potente gas serra e ciò innesca una forte retroazione positiva), il feedback legato all’albedo (associato soprattutto alla fusione di ghiaccio e neve, con conseguente maggiore assorbimento di radiazione solare alla superficie), il feedback di Planck (dal nome della legge fisica che descrive il modo in cui i corpi caldi emettono radiazione), o il meno conosciuto “feedback da lapse rate” (legato alla stratificazione termica della troposfera).
La copertura nuvolosa esercita anch’essa importanti feedbacks, ma quando entrano in gioco le nubi la situazione diventa assai complicata: il comportamento della nuvolosità è da sempre all’origine di una grossa parte dell’incertezza che caratterizza le proiezioni climatiche. In linea generale, infatti, (si veda la figura 1) sappiamo che le nubi basse e dense tendono a riflettere efficacemente la radiazione solare verso lo spazio raffreddando la superficie (si pensi ad una giornata di nebbia); inoltre, trovandosi a bassa quota, questo tipo di nube irraggia verso lo spazio (parliamo di radiazione a onda lunga, o infrarossa) ad una temperatura relativamente elevata, disperdendo quindi molta energia anche in questa parte dello spettro elettromagnetico. Le nubi alte e sottili (come i cirri, ma anche le scie di condensazione degli aerei) si comportano invece nel modo opposto e tendono a riscaldare la superficie: infatti essendo poco dense risultano trasparenti alla radiazione solare entrante che riesce a giungere in gran parte fino al suolo; al contrario delle nubi basse, le nubi ad alta quota sono molto fredde e irraggiano poca energia verso lo spazio.
Tra questi due estremi esiste una varietà pressoché infinita di modi in cui può presentarsi una copertura nuvolosa e non dobbiamo dimenticare le nubi di origine convettiva (cumuli e cumulonembi che possono occupare tutte le quote della troposfera) la cui rappresentazione rappresenta in sé una compito difficile per ogni modello, sia climatico che meteorologico.
I problemi posti dalla nuvolosità, tuttavia, non si limitano a quelli appena esposti: vi sono anche altre proprietà e caratteristiche delle nubi, proprio quelle su cui si è concentrato lo studio appena citato, che potrebbero non essere ancora simulate in modo corretto nei modelli attuali. Man mano che l’aria si scalda, infatti, si ritiene che alcune nubi potranno trasformarsi da “fredde” in “calde”. Le nubi “fredde” sono quelle che contengono un miscuglio di particelle ghiacciate e di goccioline d’acqua, mentre quelle “calde” sono composte solo da acqua allo stato liquido.
Per motivi fisici le nubi composte da goccioline riflettono con più efficacia la radiazione solare in arrivo rispetto a quelle composte prevalentemente da cristalli di ghiaccio (un fenomeno denominato cloud optical depth feedback); per di più le le nubi calde sono meno efficienti nel produrre precipitazioni e questo significa che tendono a rilasciare la pioggia con meno facilità: in questo modo, piovendo meno, la vita di questo tipo di nubi si allunga.
Secondo il dottor Mülmenstädt (l’autore principale della ricerca) la rappresentazione delle nubi calde nei modelli del progetto CMIP6 è ancora imperfetta: in questi modelli le nubi calde producono troppa pioggia e di conseguenza si dissolvono troppo in fretta. Se queste nubi avessero una vita più lunga potrebbero contribuire a raffreddare più a lungo la superficie. Mülmenstädt ha affermato che “risolvendo il problema nel modello che abbiamo studiato si ottiene una riduzione del riscaldamento globale dello stesso ordine di grandezza dell’aumento osservato fra i modelli del gruppo CMIP5 e CMIP6”.
Questa breve sintesi ha mostrato le difficoltà che affrontano tutti i giorni gli studiosi del clima e gli sviluppatori dei modelli. Uno dei limiti maggiori della ricerca di Mülmenstädt e dei suoi colleghi risiede nell’avere studiato uno solo dei tanti modelli che compongono il progetto CMIP6. Siamo certi che il suo studio non costituirà l’ultima parola sull’argomento e che le nuvole, queste entità inafferrabili e spesso effimere che popolano il cielo, continueranno a costituire ancora per molto tempo una formidabile sfida per la comunità degli scienziati dell’atmosfera.