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Può il Coronavirus accelerare il tracollo dell’industria del petrolio?

La crisi sanitaria sta causando il declino dell’industria fossile. L’impatto che questo avrà sulla lotta al cambiamento climatico dipende dal bilanciamento di diversi fattori

L’attuale crisi sanitaria da Coronavirus ha provocato un’altrettanto dura crisi dell’industria del petrolio, tale da essere definita dagli analisti la peggiore della sua storia. Porterà questa a un tracollo del settore? Che conseguenze avrà sulle strategie di lotta al cambiamento climatico?

Cosa sta succedendo

La crisi del petrolio è dovuta alla drastica riduzione della domanda, forzata dalla diminuzione del traffico aereo, dalla chiusura di gran parte delle attività produttive e dalla quarantena nelle proprie case imposta ai cittadini di gran parte del globo. Il collasso dell’aviazione ha portato a una riduzione dell’utilizzo di combustibile per il volo del 75%, 5 milioni di barili al giorno. Qualcosa di simile è accaduto alla domanda di gasolio per le auto private: lo smart-working ha ridotto drasticamente il numero degli spostamenti. Insomma, se nel mondo vengono normalmente consumati 100 milioni di barili di petrolio al giorno, da poche settimane tale consumo si è ridotto di un quarto. Si tratta di numeri addirittura più negativi di quelli associati alla crisi del ‘29 o a quella del 2008.

La drastica diminuzione della domanda porta inoltre con sé un altro problema: l’imminente esaurimento dello spazio necessario per lo stoccaggio del greggio estratto in eccesso – 20 milioni di barili al giorno. Per le compagnie che hanno accesso allo spazio a disposizione dei grandi porti, come quelli di Singapore e Rotterdam, sarà possibile accumulare il petrolio estratto per due o tre mesi. Quelle invece che possono contare solo su depositi locali (non hanno accesso a porti e gasdotti) finiranno lo spazio nel giro di pochi giorni. Già molte compagnie stanno infatti ricorrendo al noleggio delle super-petroliere da utilizzare come enormi container galleggianti.

Greggio Brent, dollari al barile. Riduzione del prezzo durante la crisi da Coronavirus. Fonte: Refinitiv, Guardian graphics

Come risultato i barili stanno cominciando ad essere venduti a meno di 10 dollari l’uno. Si sono raggiunti i prezzi più bassi degli ultimi vent’anni, prospettando la riduzione trimestrale dei prezzi maggiore della storia. In alcuni mercati senza sbocco sul mare le compagnie stanno pagando gli acquirenti per prendersi il greggio prodotto. Il valore delle azioni di alcune aziende petrolifere è dimezzato rispetto a quello di Gennaio e almeno due terzi degli investimenti annuali – 130 miliardi di dollari – sono andati persi. Il numero di pozzi petroliferi costretti a interrompere la produzione aumenta di ora in ora, man mano che ci si rende conto che la scelta migliore è lasciare, per ora, il petrolio dove sta, sottoterra.

Si prospetta la maggiore riduzione trimestrale del prezzo del petrolio della storia. Fonte: Bloomberg

Le stime dell’IEA (International Energy Agency) prevedono una diminuzione dei guadagni dei maggiori produttori di petrolio (come Algeria, Oman, Iraq, Emirati Arabi Uniti) compresa fra il 50% e l’85% nel 2020 rispetto al 2019, risultando nei ricavi più bassi in più di vent’anni.

petrolio coronavirus
Ricavi netti (miliardi di dollari) dalla produzione di petrolio per alcune delle maggiori economie produttrici (Algeria, Angola, Azerbaijan, Ecuador, Iraq, Nigeria, Oman e Emirati Arabi Uniti) per prezzi del petrolio medi nel 2020 pari a 30 dollari al barile. Fonte: IEA

Quando sarà il picco del mercato del petrolio?

Che impatto avrà questo tracollo sulla crisi climatica? L’industria del petrolio è destinata ad avere, presto o tardi, un picco strutturale seguito da un declino inesorabile, dovuto all’impegno delle nazioni verso l’azzeramento delle emissioni nette di gas climalteranti (prodotte in gran parte dall’impiego di combustibili fossili). Ci si chiede quindi se questa crisi dell’industria fossile possa variare la tempistica di accadimento di tale picco.

Nel 2018 Carbon Tracker, una ONG che si occupa di analizzare l’impatto della transizione energetica sui mercati finanziari e sugli investimenti nei combustibili fossili, aveva previsto che il picco sarebbe stato raggiunto nel 2023. Kingsmill Bond, analista presso questa società, ha affermato che “il virus anticiperà il picco di domanda di combustibili fossili”.

Il 2019 ha rappresentato quasi certamente il picco delle emissioni e forse anche il picco dell’utilizzo di combustibili fossili. Questa industria potrebbe ancora avere un breve e passeggero mini-picco nel 2022, per poi avviarsi a un declino inesorabile.

Anche altri osservatori si trovano in parte d’accordo con queste affermazioni: Mark Lewis, capo della ricerca sugli investimenti legati al cambiamento climatico presso BNP Paribas, ritiene anch’esso che questa crisi potrà anticipare il picco.

Non tutti però la pensano in questo modo, molti ritengono che l’industria del petrolio si rialzerà prontamente come accaduto dopo le crisi del passato. Anzi, i prezzi scontati dei combustibili fossili potrebbero addirittura decelerare la transizione verso fonti più sostenibili, in quanto renderebbero ancora conveniente l’utilizzo di petrolio, gas e carbone.

Chi avrà ragione? Dipende da talmente tanti fattori che è al momento difficile dare una risposta: dipende dall’andamento della geopolitica, dall’orientamento dei mercati, da come i governi decideranno di affrontare la crisi, dal comportamento dei consumatori.

Ma vediamo meglio questi fattori.

Pro – Investire nel petrolio potrebbe non essere più conveniente

La risposta della società potrebbe far sì che la domanda – e i prezzi – del petrolio non risalgano: questo avverrebbe se lo smart-working diventasse un’abitudine. In particolare, se le trasferte di lavoro venissero sostituite con conference-call, verrebbe a mancare uno dei principali driver dell’aumento della domanda di combustibile: l’aviazione.

Il prezzo ai minimi storici del petrolio riduce drasticamente i grassi ricavi che finora sono stati associati ai progetti di esplorazione del sottosuolo ai fini della ricerca di nuovi giacimenti: una recente analisi di Wood Mackenzie ha stimato che, con il prezzo del petrolio a 35 dollari a barile, il 75% dei progetti pianificati per il 2020 non varrebbero la spesa. Secondo Mark Lewis (BNP Paribas), i ricavi attesi dai progetti dell’oil&gas sono scesi dal 20% al 6% e sono ormai in linea con quelli che si possono ottenere da progetti sulle rinnovabili.

Negli ultimi due decenni, gli alti profitti hanno fatto sì che le azioni delle compagnie petrolifere costituissero i capisaldi di molti portafogli azionari. Questa abitudine è già incrinata dal sempre maggiore interesse dei mercati verso investimenti più sostenibili e dall’alto rischio legato alle crescenti restrizioni dei governi all’uso di fonti fossili; oggi potrebbe essere definitivamente spezzata. Questo settore potrebbe in sostanza perdere quello che è il suo ultimo appeal per gli investitori – i ricavi a breve termine –, divenendo poco lucrativo, rischioso, instabile e socialmente e ambientalmente dannoso. Grazie al Coronavirus, la tendenza del mercato ad orientarsi verso gli investimenti ESG potrebbe diventare ancora più evidente.

The oil and gas sector is already a very much unloved sector by investors and in this kind of oil price environment, it becomes low return, high risk and high carbon.

Il settore dell’oil&gas non è già molto amato dagli investitori e, in questo contesto di prezzi, diventa poco remunerativo, ad alto rischio e ad alto impatto climatico.

Valentina Kretzschmar – direttore di ricerca presso Wood Mackenzie

Tutto ciò sarà tanto più vero quanto più a lungo si protrarrà la crisi sanitaria, e quindi la crisi del settore, quanto più scenderanno i prezzi del petrolio.

Contro – Perché per i governi è il momento di intervenire

Molti esperti ritengono però che i prezzi bassi del petrolio non faranno altro che aumentarne l’utilizzo a discapito di altre fonti energetiche più verdi. Una ripresa sostenibile, cioè, potrebbe avvenire solamente se le istituzioni nazionali e sovranazionali adotteranno delle misure forti in proposito. Secondo Dieter Helm, professore di politiche energetiche all’Università di Oxford, ad esempio, sarebbe il momento perfetto per introdurre una tassa sulle emissioni. Gli investimenti dei governi a favore della ripresa dovrebbero essere diretti a business e fonti energetiche sostenibili. La necessità di ricostruzione deve essere, in pratica, un’opportunità di cambiamento in positivo.

Questa opportunità deve però essere colta: l’Unione Europea ha già dichiarato che le misure di emergenza saranno allineate al Green Deal; ma gli Stati Uniti stanno elargendo 60 miliardi alle compagnie aeree e, insieme al Canada, stanno concedendo prestiti a basso interesse alle compagnie petrolifere senza alcuna condizione di sostenibilità.

La storia ci insegna che, dopo la crisi, l’industria petrolifera risorgerà più forte. È accaduto nel 2008, ma, secondo Bond (di Carbon Tracker), oggi c’è una grande differenza: i combustibili fossili costano più delle rinnovabili, non sono più convenienti. Non ha quindi senso affidarsi ad essi per la ripresa. È solamente necessario che l’economia mondiale muti prospettiva e capisca che il cambiamento conviene. Per evitare il fallimento in massa delle compagnie petrolifere, assicurando il rifornimento di energia e i posti di lavoro, potrebbe essere sufficiente nazionalizzarle, come suggerisce Adrienne Buller, economista presso il Common Wealth.

Comunque vada, questa crisi segnerà profondamente sia l’industria fossile che la lotta al cambiamento climatico. Se sarà per quest’ultima una ferita o un sostegno è ancora tutto da vedere: dipende dalla durata della crisi e dalle scelte dei governi e dei cittadini. La ripresa deve essere sfruttata e per questo è necessario una pianificazione saggia e lungimirante degli investimenti statali. Per quanto riguarda i cittadini, ad esempio, stare a casa (quando si lavora) potrebbe essere ancora una volta la cosa giusta da fare.

Elisa Terenghi

Nata a Monza nel 1994, mi sono laureata in Fisica del Sistema Terra presso l’Università di Bologna nel marzo 2019, conseguendo anche l’Attestato di formazione di base di Meteorologo del WMO. Durante la tesi magistrale e un successivo periodo come ricercatrice, mi sono dedicata all’analisi dei meccanismi di fusione dei ghiacciai groenlandesi che interagiscono con l’oceano alla testa dei fiordi. Sono poi approdata a Meteo Expert, dove ho l’occasione di approfondire il rapporto fra il cambiamento climatico e la società, occupandomi di rischio climatico per le aziende.

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